Babygirl, recensione: desiderio, potere e tabù in un thriller contemporaneo

Con Babygirl, Halina Reijn dirige un’opera che sfida i ruoli classici, indagando il potere e le sue complessità, mettendo a nudo il desiderio femminile.

Autore: Nicholas Massa ,

Sesso e potere, un binomio che s'incontra facilmente sia dentro che fuori la camera da letto, nel quotidiano e nel professionale, nel sentimentale e soprattutto nel sociale, arrivando a superare le ritualità morali anche nelle società più schematiche e solide. La rottura con i tabù e l'analisi dell'intimo umano sono diventati ormai qualcosa di ben oliato e accettato all'interno del cinema contemporaneo e moderno, portando sul grande schermo storie che virano più verso il frivolo e l'erotico, accompagnate da lavori che invece vogliono indagare tutto questo in qualche modo. In ciò ritroviamo tutti gli intenti principali di Babygirl, scritto, diretto e prodotto da Halina Reijn (regista già nota per lungometraggi come Instinct e Bodies Bodies Bodies), thriller sessuale con al centro una Nicole Kidman che ci mette tutta se stessa per catturare l'essenza della protagonista, trasponendone i bisogni intimi in un gioco che si riferisce direttamente al pubblico in sala.

Presentato in anteprima all'ottantunesima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, e disponibile nei cinema italiani dal 30 gennaio 2025, Babygirl si muove fra le sinuosità del proibito, per raccontarne la normalità, illudendo verso un'esperienza che, volutamente, non si concretizza mai del tutto, tenendo in sospeso anche laddove sarebbe stato interessante approfondire. Il gioco dell'erotismo al servizio di alcune riflessioni che interessano direttamente il nostro presente, ma anche l'analisi distaccata sul desiderio in sé e sul suo essere sfaccettato e intricato.

Il potere prima di tutto e sopra a tutto

Babygirl si concentra sulla vita di Romy (Nicole Kidman), una potente donna d'affari che ha fatto di tutto per alimentare la sua carriera, arrivando ai vertici del proprio settore. Quando la conosciamo, la sua è indubbiamente una vita da invidiare: una splendida famiglia composta da due figlie e un marito affettuoso (Antonio Banderas), appartamenti e case splendide, luoghi da sogno in cui spendere il proprio tempo libero, e un'eleganza a non finire. Tutto sembra sotto controllo e perfetto nei minimi dettagli, se non fosse che Romy ha dentro di sé una carenza che la tormenta da tempo, spingendola verso fantasie difficili da tenere a bada, come tutto il resto.

La scintilla che accende gli eventi si manifesta e in seguito si propaga con l'arrivo, in ufficio, di un nuovo gruppo di giovani stagisti interessati, anima e corpo, a entrare in azienda. Fra questi, uno in particolare sembra essere interessato a Romy in modo diverso dagli altri. È come se avesse percepito qualcosa che sfugge ai più, qualcosa che la riguarda da vicino e nell'intimo, senza alcun timore di avvicinarsi ancora e ancora. Da ciò scaturisce il gioco sessuale al centro di Babygirl, coinvolgendo direttamente quello stesso potere che da sempre Romy stringe nelle sue mani.

Tutto diventa tale solamente se c'è un rischio concreto

Babygirl mostra i propri intenti e la propria voce fin dalla sequenza di apertura al racconto per immagini, proiettandoci nell'intimità di una donna soddisfatta a metà, potente sì, ma manchevole di alcune attenzioni che troveranno il loro filo conduttore solamente con i dovuti approfondimenti del caso. Lo sguardo della macchina da presa non è mai complice, ma curiosamente freddo e distaccato, allontanando gli spettatori attraverso una costruzione formale che invade anche gli altri momenti chiave del film. La mano della regista sembra quasi voler analizzare ciò che avviene, studiarne i momenti e le dinamiche, restituendo sensazioni contrastanti e un tocco che non diventa mai calore puro.

Eagle Pictures.
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Partendo dalla stessa struttura “da thriller”, è palese dove Babygirl voglia andare a parare. Il film pare strizzare in qualche modo l’occhiolino verso il cinema del passato, quello degli uomini infedeli e del rischio familiare, scambiandone però i ruoli più classici a favore di un lavoro in cui è il femminile e le sue pulsioni intime a essere messo sotto i riflettori. L’attrazione verso uno stagista più giovane, l’insoddisfazione sessuale, il recondito desiderio di essere comandata, per una volta, e un filo sul quale camminare e lasciarsi andare a proprio rischio e pericolo.

A tutto ciò bisogna aggiungere un’importante e interessante riflessione sul desiderio femminile e sullo spettro che può naturalmente assumere, in un gioco in cui il capovolgimento interessa non soltanto la stessa struttura del film, ma anche la vita privata e intima di una donna che si trova a contatto diretto con le sue fantasie più represse e intime, trovando in Samuel (il giovane stagista interpretato da Harris Dickinson) uno sfogo finalmente ultimo e definitivo, un allineamento che non sempre è facile raggiungere.

Eagle Pictures.
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C’è però un grande problema in Babygirl, che riesce a coinvolgere, a livello intellettuale e di intrattenimento, soltanto fino a un certo punto, prediligendo un approccio visivo che sembra non sfogarsi mai del tutto, non darsi fino in fondo come ci si aspetterebbe da una storia del genere, restando sempre abbastanza sospeso e distaccato. Il ragionamento è chiaro, ma a livello di costruzione anche le sequenze più esplicite non rompono mai gli schemi di un perbenismo che resta quasi un vincolo espressivo generale.

Tutto si riconduce, quindi, alla fantasia della stessa Romy, a quelle invenzioni che diventano filtro e mezzo semi-principale attraverso cui anche gli spettatori s’immergono gradualmente in questo Babygirl. È un male? Non necessariamente, anche se una delicatezza del genere avrebbe potuto tranquillamente legarsi al senso di libertà del lungometraggio, trasformando lo spirito borghese di fondo in pura violazione dei tabù cinematografici in questo senso.

Eagle Pictures.
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Così ci si ritrova coinvolti in un lavoro che colpisce per alcuni spunti, ma apparentemente irrisolto. Il potere, il sesso, il lavoro e la posizione della donna, a letto e fuori, vorticano disordinatamente mettendo al centro di tutto le scelte di una protagonista a contatto non soltanto con se stessa, ma anche col nuovo e il futuro, ponendo domande forti che coinvolgono direttamente i ruoli di potere anche a livello generazionale.

Ciò che resta chiaro è il tocco di una regista che vuole introdurre e studiare, ma anche portare all’attenzione, in un processo che sfrutta le immagini per mettere a nudo anche la nostra stessa contemporaneità. Andando oltre l’erotismo, il messaggio arriva forte, anche se non sorprende troppo nella resa generale di un racconto in cui a brillare è sicuramente la performance di Nicole Kidman.

Commento

Voto di Cpop

65
Babygirl si presenta come un thriller elegante e provocatorio, che esplora il desiderio femminile e il potere attraverso la storia di Romy, una donna d’affari di successo interpretata da Nicole Kidman. Il film ribalta i ruoli tradizionali del cinema di genere, mettendo al centro le pulsioni intime di una protagonista in bilico tra controllo e vulnerabilità, attratta da un giovane stagista che diventa il catalizzatore delle sue fantasie represse. Nonostante alcune riflessioni interessanti sul rapporto tra potere, erotismo e tabù, l’opera rimane sospesa, con un approccio formale che non osa mai del tutto e sequenze che evitano di rompere gli schemi del perbenismo. La regia di Halina Reijn privilegia uno sguardo distaccato e analitico, limitando l’impatto emotivo di una storia che resta coinvolgente solo in parte. Al centro di tutto, la performance magnetica di Nicole Kidman, che brilla in un racconto visivamente curato ma non pienamente risolto.

Pro

  • La performance di Nicole Kidman riesce a catturare le sfumature complesse di una protagonista in bilico tra potere e vulnerabilità.
  • Il film offre un’interessante esplorazione delle pulsioni intime e del potere, ribaltando i ruoli tradizionali del cinema di genere.

Contro

  • Lo sguardo analitico e mai completamente coinvolgente limita l’impatto emotivo del racconto, in bilico con il grottesco di alcuni momenti.
  • Il film resta troppo vincolato a un perbenismo borghese di fondo e visivo che ne smorza il potenziale in questo senso.
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