Eric, recensione: la serie Neflix con Benedict Cumberbatch è un thriller sui generis

Autore: Paolo Falletta ,
Eric, la nuova miniserie targata Netflix arriva curiosamente nello stesso momento in cui John Krasinski porta al cinema i suoi amici immaginari, creature colorate e mostriciattoli adorabili, ultimo baluardo di un’immaginazione a rischio estinzione (nella potenziale concretizzazione visiva di qualsiasi astrazione e nell’iperesposizione alle immagini della contemporaneità), e lo fa proponendone il controcampo degenere, quello del delirio allucinogeno. 

Di cosa parla Eric?

New York, anni ‘80. Vincent è l’ideatore del programma per bambini Good Day Sunshine, disegna burattini, gli infonde la vita e ne la voce: è un genio creativo, un ottimo narratore, acuto demiurgo ma pessimo burattinaio di sé stesso, manovratore d’eccellenza mentre ogni cosa della sua vita privata sembra sfuggirgli di mano. Quando suo figlio Edgar scompare per Vincent arriva il momento di scandagliare la città e sé stesso alla ricerca di suo figlio e dei mostri interiori pronti a riaffiorare. 

Mentre tutto attorno a lui pare cadere a pezzi e l'unica traccia da seguire sembra il disegno di un mostro di nome Eric trovato tra gli schizzi di Edgar, ad occuparsi del caso è il detective Michael Ledroit, deciso a far luce sulla scomparsa del bambino nonostante gli ostacoli all'investigazione.

Gli amici immaginari di un genio nevrotico

In Eric l’amico immaginario diventa nemico, figurazione organica delle mancanze, delle lacune di un’interiorità provata, corpo per le voci nella testa di un individuo instabile e in preda ai fumi dell’alcol. Se per il piccolo Edgar il grosso e peloso Eric (che ricorda James Sullivan di Monsters & Co.) è la versione pupazzosa di un padre che deve necessariamente essere rappresentato - cioè rifigurato, riformato, traslato in qualcosa di uguale e diverso da sé - per essere assimilato nelle sue storture e accettato, per Vincent il mostro diventa sia eco della coscienza, rigurgito del rimosso, sia assillante rimorso.  

È, in fondo, anche il risultato di una distanza percettiva incolmabile tra bambini e adulti, una differenza nella visione - meraviglia da una parte e problematizzazione (se non inquietudine) dall’altra - che permette di associare alla dimensione pittoresca e puerile dei personaggi muppettiani i toni da thriller di Eric, di ritingere tutto di pennellate cupe per un poliziesco sui generis. 

Nelle luci al neon di locali notturni, nelle ombre e nel marciume di giri malavitosi invisibili e sottocutanei Eric odora (o puzza) di noir (e non è forse Vincent un improvvisato investigatore lontano dall’essere un individuo modello?); nel suo scandirsi per interrogatori con un co-protagonista – il granitico detective Michael Ledroitintento a braccare e interpellare i sospettati uno dopo l’altro, la creazione di Abi Morgan ha il sapore del police procedural; nelle elucubrazioni guaste e stralunate del protagonista, nella sua scissione, nel suo io frantumato, la serie Netflix diventa thriller psicologico duro e puro.  

Al di là della proiezione immaginaria di Vincent, Eric passa in rassegna mostruosità ben più tangibili e spiacevoli: sono mostri gli ultimi, gli emarginati, che Abi Morgan pensa bene di rendere tanto nella spaventosa metamorfosi che la loro condizione comporta – relegati in una vera e propria contro-città sotterranea, un sottosopra poco fantasy e assai irregolarequanto in quello che è sentimento condiviso e nucleo tematico della serie.

Il “non sentirsi a casa”; sono mostri gli esponenti di una classe dirigente che per accaparrarsi l’appoggio pubblico progetta una mobilitazione cieca che non può che sfociare nella ghettizzazione, nella catalogazione, nella discretizzazione discriminatoria e nell’integrazione affannosa; lo sono figure paterne assenti, contraffatti punti di riferimento e di ferimento; lo sono, in fine, tutta una serie di individui istituzionali benevoli che non si scollano di dosso un’annosa negligenza razzialmente motivata, il bianco come priorità e il nero come seccatura. 

Mostri e burattini

Volendo assumere i panni dell’investigatore per scoprire cosa non va nella nuova serie Netflix, per smascherare il mostro personale di Eric, si fa presto a cogliere in flagrante un protagonista respingente con la complicità di una scrittura che tralascia quasi del tutto la suspense e la sensazione di pericolo.

Vincent, personaggio nevrotico che non accenna a rinsavire, estenua dopo pochi episodi causa un irritante immobilismo: quello interpretato da Benedict Cumberbatch – che dalla sua offre un’ottima prova che sfiora, però, l’overacting- è un personaggio troppo negativo, dal fatal flaw troppo ingombrante per potersi allineare con lo spettatore, per suscitarne l’empatia, e non basta un’infanzia difficile a riabilitarlo. La conseguenza è che lo spettatore non lo segue con fervore partecipativo nel suo piano, causa un’instabilità cronica e una fiducia compromessa nei suoi confronti. 

Dal canto suo, la serie non riesce mai davvero a mettere in apprensione ma si rifà dando vita ad un puzzle abbastanza composito che non può che destare un certo interesse ludico nell’associare le tessere e nel riscoprire un contesto ampliato e ramificato, che ha il merito trattare gli spettatori come burattini dirigendoli e ridirigendoli verso false piste, togliendo e rimettendo in gioco, escludendo e ripescando, rassicurando e poi instillando il dubbio.

risolvere il nodo protagonista, oltre alla “spalla” Eric che diverte nel contrasto tra il proprio aspetto da enorme peluche e le sue espressioni scurrili e scorbutiche, sono il subentrare di un sentimento compassionevole (che è già qualcosa) di fronte all’estremo patetismo di un Vincent nel baratro, e il carisma naturale di McKinley Belcher III nei panni di Ledroit, che compensa e riequilibra sia in quanto unico vero agente del bene, sia perché, contrariamente a quanto avviene con il personaggio di Cumberbatch, il suo è un moto ostacolato ma lineare, imperterrito, perpetuo.

Poliziotto vecchio stampo, glaciale, monolitico, sempre sul pezzo e immerso con totale abnegazione nel caso, Ledroit è il vero motore della narrazione, oltre ad essere il personaggio più riuscito e maggiormente (o meglio, in maniera più efficace) indagato nella sfera intima, capace di spostare l’attenzione sulle proprie sorti e di distoglierla dal conflitto centrale. 

In generale, il meglio arriva quando Eric scopre le carte e trasferisce tutta la forza trascinante e il tasso di sorpresa da whodunit sui risvolti di un caso collaterale, quando si lascia andare alla sua anima drama, quando si scava dentro e scopre che anche un mostro può avere cuore. 

Commento

cpop.it

72

Eric è una serie dalle tinte noir e dall'andamento da procedural, un thriller psicologico che sfrutta l'imput narrativo del bambino scomparso per scrutare le ombre della New York degli anni '80, passando dalle discriminazioni razziali ai pregiudizi omofobi, dagli effetti devastanti delle droghe alla corruzione della classe dirigente. Eric non trova la propria vocazione nell'adrenalina della ricerca ma trae forza dal curioso sdoppiamento di un protagonista scisso e dalla dedizione trascinante di un co-protagonista riuscitissimo. La serie targata Netflix si maschera, insomma, da poliziesco ma si riscopre dramma sugli effetti di una paternità apatica e disinteressata.

Pro

  • L'interazione tra Eric e Vincent
  • La traiettoria del detective Ledroit
  • Il caso del bambino scomparso cresce in ampiezza...

Contro

  • ...finendo per uscire dai binari del nucleo narrativo
  • Il protagonista ha un fatal flaw ingombrante
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