The Decameron, recensione: la serie Netflix guarda a Boccaccio ma fa a modo suo

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Autore: Paolo Falletta ,

The Decameron, la nuova serie targata Netflix, prova a replicare quanto fatto dai più recenti drama di corte ripescando un'opera cardine della letteratura italiana ma trascurando le ragioni per cui il testo boccaccesco non abbia avuto modo di ridimensionarsi assecondando la nuova sensibilità di massa. Dopo Pasolini e i fratelli Taviani, il Decameron finisce nelle mani di una produzione americana e il risultato potrebbe far storcere il naso.

Sulla scia di Bridgerton

Quando Kathleen Jordan ha pensato di poter destinare al Decameron lo stesso trattamento riservato ai romanzi di Jane Austen, con Orgoglio e Pregiudizio, vero e proprio fenomeno transmediale ex post, che pulsa ancora oggi nelle vene di un Bridgerton che ne è calco e rivitalizzazione, non deve aver considerato la difficoltà di adattamento di un’opera tanto rigida ed eterogenea allo stesso tempo, con un impianto narrativo che ben si presterebbe ad una serie antologica dall’orizzontalità pretestuosa e accennata piuttosto che a un serial che scardina la mise en abyme boccaccesca. 

Ma accettiamo che il debito nei confronti di Boccaccio si limiti all’ambientazione e alle tematiche, all’orrido cominciamento di una peste che dilaga e di una società che si disgrega, al classismo e alle iniquità sociali, agli amori tragici e sovversivi, all’erotismo bucolico e cortigiano.

In fondo la nuova serie Netflix ha tutto il diritto di trarre liberissima ispirazione dall’opera cardine della letteratura italiana, di banalizzarla e di travestirla da costume dramedy, di affidare alla cornice il compito di inglobare il quadro, di farsi carico dell’intero ventaglio tematico. Ne consegue che a venir meno è l’idea dellunione dell’allegra combriccola come utopia ordinatrice e al caos della Storia e della pestilenza ne corrisponde uno speculare tra le mura della villa che accoglie il gruppo. 

E a generarlo sono nobili estraniati dal contesto per la loro condizione privilegiata, auto-estrapolatisi per scelta dalle mortifere questioni popolari persino prima di esiliarsi in una villa che è locus amoenus atemporale, prosecuzione concreta della torre d’avorio in cui il loro solipsismo li rifugia da sempre.

Pampinea persegue senza scrupoli in maniera ossessiva il riconoscimento tramite il matrimonio; Tindaro nasconde la propria insicurezza e la propria inettitudine dietro una misoginia traballante; Neifile, dal canto suo, utilizza la maschera della pudicissima timorata di Dio per tenere a bada lussuriose pulsioni; poi Filomena, Licisca, Diomede, Panfilo: i personaggi di The Decameron sono trottole impazzite senza alcuno spessore morale e valoriale, individui schiamazzanti e sguaiati con cui è impossibile stabilire un legame empatico, che sterilizzano il riconoscimento e compromettono il trasporto dello spettatore. 

"È una tragedia e non ti riprenderai mai"

Sono, di fatto, personaggi profondamente tragici, di una tragicità sempre patetica e mai solenne, incapaci di agire secondo virtù, completamente spogliati della loro nobiltà d’animo e soggiogati dal loro opportunismo. Adulatori, bugiardi, impostori che diventano, però, plasmatori di una materia narrativa fatta di tresche e inganni, di ingiurie e di relazioni parassitarie e adulterine. Ed è qui che The Decameron indugia: in triangoli amorosi che diventano poligoni, in lotte avare in nome di ricchezza e status, in nobili che svalvolano e rinsaviscono e poi tornano a farneticare.

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The Decameron

Il problema è che tutto si riduce a del pettegolezzo medievale spicciolo e la serie di Kathleen Jordan finisce per collocarsi nella poco dilettevole intersezione tra una soap opera in costume di nobili in astinenza sessuale e un reality show con partecipanti puerili dediti all’apparenza e all’edonismo. E non c’è davvero nulla che la distanzi dalla mera esposizione incolore di avvenimenti frivoli, che ne scongiuri un’inconsistenza materica che potrebbe evitarsi se The Decameron ricorresse a un filtro caricaturale deciso, a un’elaborazione critico-parodistica più accentuata. Nessuna carica trasgressiva, nessuna spinta esacerbante, un grottesco accarezzato e uno scandaloso sfiorato. 

Se poi i colpi di scena sembrano poter risollevare un’impalcatura narrativa che si dichiara ludica, tutta improntata al divertissement disimpegnato, bisogna ammettere che tutto appare costruito a tavolino – e senza dissimulazione - per permettere ai twist di deflagrare, tanto da far sembrare il resto un riempitivo asservito alla sorpresa e proiettato al cliffhanger sistematico.

C’è comunque un’evidente abilità nell’amministrare con la stessa attenzione le varie storyline, nel gestirne l’unione e la dispersione, nel conferirgli la medesima densità drammaturgica e dar vita a un intreccio, nonostante tutto, ben congegnato.  

L'amore ha artigli affilati

Ma imbrogli e macchinazioni non riescono a intrattenere proprio perché depredati del pericolo della scoperta e della paura delle conseguenze, effetto di una generale atmosfera di follia collettiva che è tratto peculiare e ostacolo allo stupore e allo sconcerto per il proibito. I personaggi, evidentemente carenti in termini di raziocinio e dai caratteri iperbolizzati, sono visti fin dall’entrata in scena come potenzialmente capaci di azioni immorali o delittuose, motivo per cui gli intrighi che li vedono protagonisti non raggiungono mai lo sbigottimento. 

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C’è poi una dimensione festiva intrinsecamente legata a una sorta di circolarità viziosa e antinarrativa, che conferisce un senso di staticità che gli autori pensano bene di evitare con periodiche incursioni esterne e attentati alla sicurezza di Villasanta.

La villa diventa quasi crocevia e ricettacolo di brame e desideri impuri, luogo di amplificazione dei moti più infimi e istintivi. Villasanta è ambientazione e oggetto del desiderio, macguffin calpestabile rivelatorio di insanità e di peccaminosi slanci interiori. Ed è anche calamita, luogo di andirivieni infinito, da cui non si può fuggire causa una forza d’attrazione che più che santa la connota come maledetta. 

Tra offese e maldicenze e pochi momenti di relativa redenzione, si incunea e si rivela la tematica amorosa tanto cara a Boccaccio, che The Decameron mostra in tutte le sue declinazioni: amore fraterno, amore tossico, disatteso o allucinato, a volte puro, quasi sempre disfunzionale. È un sentimento sopra ogni sgarbo o lesione, sopra il vilipendio o l’aggressione, un amore “con gli artigli affilati” che la serie Netflix avrebbe forse dovuto rendere più graffiante, e fargli lacerare  penetrare la carne già compromessa dai bubboni e dalla turpitudine. 

The Decameron è, insomma, una tragicommedia dell’eccesso mai davvero eccessiva, disseminata di situazioni drammatiche sempre fatalmente depotenziate dall’apatia degli agenti, da un distacco egoistico che compromette la credibilità di reazioni non attinenti alle personalità delineate. Vuole essere soap senza la continuità che fidelizza, vuole essere pop senza scollarsi dall’elitarismo abietto. 

Commento

cpop.it

50

The Decameron ripesca l'opera cardine della letteratura italiana e la spoglia di tutta la carica sovversiva che caratterizzava il testo boccaccesco, replicandone il ventaglio tematico ma accorpandolo in un'unica dimensione narrativa. Nel percorso perde tutto lo slancio trasgressivo ed eterodosso che apparteneva alla raccolta di novelle, fallendo anche in una banalizzazione che è in fondo necessaria ma che non riesce a smussare gli spigoli di un ibrido a metà tra soap opera stringata e un Grande Fratello fictional tra nobili puerili ed edonisti.

Pro

  • Villasanta possiede un'aura tutta sua
  • La gestione delle linee narrative è attenta

Contro

  • L'intreccio è forzatamente proiettato verso i plot twist
  • Difficile allinearsi a personaggi esclusivamente negativi
  • Tutto si riduce al frivolo pettegolezzo medievale
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