Sony sta facendo sul serio con Uncharted? Sembrerebbe di sì. Difficile non interrogarsi sulle vere intenzioni dello studio quando, in apertura di film, vediamo per la prima volta il logo di PlayStation interpretato come un cinematic universe. D'altronde non è un mistero che da tempo Hollywood abbia messo gli occhi sul mondo videoludico come prossimo bacino di storie già confezionate (e con relativa fanbase da sfruttare in chiave botteghino) per lanciare prodotti e franchise più sicuri di un titolo completamente originale e ignoto.
È interessante però notare come, esattamente com agli albori dell'era cinecomics, i tentativi di trasposizione finora visti al cinema passino dall'imbarazzante all'appena sufficiente, senza titoli davvero memorabili. A inizio millennio Tomb Raider ha aperto la via, Resident Evil ha messo in campo il primo franchise di lungo corso, Final Fantasy ci ha provato in chiave animata. Dopo una lunga pausa sono arrivati in anni recenti Rampage, Warcraft, un nuovo Tomb Raider, il successo commerciale di Monster Hunter, Pokémon: Detective Pikachu e, nel solo 2021, Sonic e Werewolves Within. Qualcosa si sta muovendo, ma sia in chiave qualitativa sia per impatto culturale, siamo ben lontani dai risultati sperati.
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Uncharted sembra però muoversi su un altro livello rispetto ai suoi predecessori. Sin dalla prima sequenza che apre il film, si nota da subito che l'impegno produttivo c'è e la voglia di fare bene anche. Non stiamo parlando di un film di primissima fascia - gli effetti speciali talvolta sono così finti che viene da chiedersi se non si sia tornati nel mondo videoludico - ma di un titolo che punta davvero a fare bene nel novero del cinema commerciale, con minore pigrizia del solito. Sony infatti ha deciso di scomodare il gioiello della sua scuderia di talenti, Tom Holland, affidandogli il ruolo del protagonista Nathan Drake. Non solo: in campo action Mark Wahlberg è un nome che si scomoda in occasioni speciali e avere un'icona del cinema internazionale come Antonio Banderas nei panni del cattivo conferma che il film vuole farsi notare con un cast di facce note. Sonic e Detective Pikachu avevano un nome di richiamo ciascuno (Jim Carrey e Ryan Reynolds), ma circondato da attori alle prime armi o comunque sconosciuti.
Uncharted: il fratellino minore di Indy, Ethan e Peter
Come già visto per molti adattamenti simili negli ultimi anni, l'approccio di Uncharted è quello di pescare a piene mani non solo dal primo, ma anche dal secondo e dal terzo titolo del suo franchise, mescolando il tutto per ottenere un film che giochi le sue carte migliori sin dall'avvio. L'intrattenimento nella pellicola non manca: Uncharted sembra il fratellino minore di Mission Impossible, con tanti stunt e tanti combattimenti mozzafiato che tengono sempre il ritmo molto alto.
L'approccio è quello "archeologico scanzonato" di prodotti avventurosi e action, come per esempio il recente titolo Netflix Red Notice. Le spiegazioni storiche che da Magellano all'Inquisizione portano fino ai giorni nostri non sono esattamente credibili, ma il punto è divertirsi con la risoluzione di enigmi secolari alla Indiana Jones. Un po' Ethan Hunt e un po' Indiana Jones, il Nathan Drake di Tom Holland è anche e soprattutto Peter Parker. Di fatto la caratterizzazione del personaggio è identica: giovane adulto scavezzacollo rimasto solo nella Grande Mela, affascinante e colto, si trova invischiato in avventure più grandi di lui, che rivelano puntualmente quanto sia intelligente ma mai cinico. Da Peter a Nathan, a conquistare è sempre la naturale simpatia di Tom Holland, la sensazione istintiva che sia i suoi personaggi sotto sotto nascondano un cuore d'oro.
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Un Holland ancora più fisicato del solito ci mette il carisma e tenta di creare una chimica anche con Mark Wahlberg, qui impegnato nei panni di Victor "Sully" Sullivan, un cercatore di tesori inaffidabile sulle tracce dell'oro perduto di Magellano. Il tentativo di rendere Walhberg un'adorabile canaglia funziona meno, ma agli occhi di chi scrive la fascinazione del pubblico e degli studios statunitensi per questo attore è uno dei quei lost in translation culturali statunitensi incomprensibili. Delittuoso invece il sottoutilizzo di Antonio Banderas, ripresosi alla grande da un periodo di stanca della sua carriera. Tra i volti meno noti vale la pena di citare solo Tati Gabrielle nei panni di una spietata mercenaria dal guardaroba impeccabile.
Uncharted: cosa manca al film per lasciare il segno
Come tanti film commerciali degli ultimi anni, Uncharted sogna di lanciare un franchise e tenta di farlo incorporando elementi presi qua e là da colleghi di successo o da grandi classici del genere di riferimento, magari delle decadi verso cui il pubblico dimostra maggiore nostalgia (ovvero gli anni '80 e '90). Siamo però lontani dal lasciare davvero il segno, almeno a livello qualitativo, tanto che la stampa internazionale ha definito il film soulless, senza anima.
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Tornando agli albori della storia dei cinecomics, è evidente come manchi una mano e una mente carismatica dietro l'operazione. Il regista Ruben Fleischer non è un Bryan Singer né tanto meno un Sam Raimi, pur avendo confezionato un piccolo film di culto come Zombieland. Sony dimostra molta fedeltà alla sua stessa scuderia (oppure pigrizia?), considerando che Fleischer aveva già diretto il deludentissimo primo film di Venom con Tom Hardy. Sony sta dunque cercando di lanciare il suo impero ludico al cinema con un approccio simile a quello dell'alleata riluttante Marvel: la forza sta nello studio e nel suo metodo, negli attori già famosi che vengono scomodati. In questo tipo di approccio la visione personale del cineasta coinvolto è totalmente assente, ridotto a un mestierante che fa il suo, secondo le direttive giunte dall'alto.
Il problema è che Sony al momento non ha per le mani né un James Gunn, né un Taika Waititi, né tantomeno dei fratelli Russo. È un vero peccato, perché a Uncharted manca proprio questo: una visione personale e accattivante. Non guasterebbe poi un nome in grado di mettere mano anche alla sceneggiatura, per renderla qualcosa in più dell'adattamento fedele ma appunto senz'anima della controparte videoludica. L'errore è sempre quello: sottovalutare quanto lavoro e talento servano per prendere una storia di successo da un medium (fumetto, videogioco) e farla funzionare in un altro, dandole un valore specifico e non derivativo.
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