Parasite non è il miglior film dell’anno; non è nemmeno il miglior film tra quelli in concorso al Festival di Cannes che l’ha visto vincere la Palma d’Oro. Soprattutto, non è la miglior pellicola mai diretta da Bong Joon-ho, che a sua volta si potrebbe argomentare non essere il miglior regista sud coreano in attività tra i nomi di alto profilo internazionale. Eppure non ha vinto, ha trionfato agli Oscar 2020, annichilendo la concorrenza e portandosi a casa quattro statuette pesantissime: miglior film, miglior film internazionale, miglior regia e miglior sceneggiatura originale.
Il successo di Parasite arriva da lontano ed è spia di un lento ma inesorabile cambiamento all’ombra degli studios e dell’Academy. Nonostante qualche rigurgito di tradizionalismo (vedi la vittoria di Green Book come miglior film nel 2019), i trionfatori degli ultimi anni nella categoria di miglior film sono simbolo di un cinema nuovo e indipendente, di voci diverse dallo standard hollywoodiano dettato dalle grandi produzioni. Chi però addita il successo del k-pop e la generale coolness percepita attorno alla tutto ciò che è coreano negli ultimi anni - dal beauty ai drama - come motivazione di questa vittoria sta sottovalutando un fattore importante: il regista Bong Joon-ho.
Questo cambio di clima in un’America lontana dall’abbandonare il suo punto di vista culturale egemonico e colonialista ma molto più propensa del passato all’aprirsi al diverso (almeno in campo cinematografico) ha reso possibile un traguardo già sfiorato nel 2019 dal messicano Alfonso Cuarón con Roma e solo un decennio fa impensabile. L’impressione è che se non ce l’avesse fatta Parasite, non avremmo dovuto aspettare poi troppo per vedere un film non parlato in inglese vincere la statuetta di miglior film. Tuttavia non è un caso se Bong Jong-ho ha conquistato il pubblico statunitense e internazionale: più o meno consciamente sta lavorando a questo traguardo da oltre un decennio. Parasite è un film confezionato su misura per sedurre l’Occidente.
Parasite: analisi di un successo
La storia di questa straordinaria corsa all'Oscar comincia il 25 maggio 2019, quando la giuria capitanata da Alejandro González Iñárritu assegna la palma d'oro a Parasite, primo film coreano ad espugnare il festival francese. La vittoria arriva a sorpresa. In un anno ricco di film davvero riusciti, i cavalli su cui tutti puntavano erano altri: in primis Pedro Almodóvar e il plauso trasversale ricevuto con Dolor y gloria, mentre i bookmakers americani scommettevano su Quentin Tarantino per onorare l'anniversario della sua Palma 25 anni dopo.
C'era chi invece puntava sulla vittoria di una regista come Mati Diop con lo struggente Atlantique o su Céline Sciamma con l'intenso Ritratto della giovane in fiamme, adorato dalla critica statunitense e quotatissimo per una palma di rottura e al femminile. Non che Parasite non avesse raccolto consensi - il critico inglese Peter Bradshaw sul Guardian lo accreditava come possibile vincitore del Grand Prix - ma semplicemente sembrava non fosse il titolo ideale per la vittoria.
A rileggere le recensioni dell'epoca in molti rilevavano come fosse un gran bel film da un regista da cui però si era già visto fare di meglio. La vittoria di Bong Joon-ho fino a quel momento era quella di essere uscito dalla sua mediocre parentesi hollywoodiana, ritrovando il suo smalto assieme a un cast coreano e a una produzione molto curata. Già nella modalità con cui ha vinto la Palma c'era qualche indizio sul potenziale di Parasite. Era infatti dal 2013 (quando trionfò La vita di Adele) che un vincitore non raccoglieva il voto unanime della giuria sin dal primo giro di votazioni. Le pellicole che vantano questo record sono pochissime nella storia del Festival.
Parasite ha dimostrato da subito di saper far presa: non tanto sui critici con una notevole familiarità con il regista e con il cinema internazionale, ma sugli addetti ai lavori, sulla "gente di cinema" che poi costituisce la platea votante agli Oscar.
Il fattore Neon
Il punto di svolta nella corsa agli Oscar è però un altro. Non bisogna infatti dimenticare che gli Academy Awards sono emanazione stessa della forma mentis statunitense, quindi il versante economico di ogni film ha un peso non indifferente nella competizione per la vittoria. Le chance di proporsi come serio candidato a una statuetta a miglior film straniero sono lievitate quando Parasite si è imposto come successo di botteghino, dentro e fuori i confini statunitensi. Storicamente i film (e in particolari quelli non anglofoni) hanno molte più chance di fare bene agli Oscar quando hanno alle spalle ottimi incassi.
Il motivo è semplice: tra i votanti dell'Academy ha grande importanza il passaparola diretto e indiretto. Sentir parlare di un film sui media o tra i conoscenti rende la sua visione più appetibile e prioritaria. D'altronde è cosa nota che spesso i votanti hanno visto solo un paio di film nelle categoria in cui esprimono un voto, talvolta nessuno. In molti hanno ammesso di basarsi sul passaparola o sulla nomea di uno studios quando esprimono una preferenza senza aver visto i film candidati.
Parasite ha alle spalle un piccolo studio indipendente di NEON, di recente fondazione ma già molto competitivo. Due anni fa ancora non esisteva e oggi vanta un Oscar sulla mensola e una serie di successi commerciali e artistici di tutto rispetto, tra cui figurano The Lodge e lo stesso Ritratto di una giovane in fiamme. La parabola sembra la stessa tracciata da A24, una realtà indie che in pochi anni ha saputo imporre il protagonismo del suo marchio a cui è legata una narrativa di qualità (come una volta era il leone ruggente della MGM). Neon tiene un profilo più basso, ma si dimostra altrettanto capace di creare appeal attorno a un prodotto.
Il fattore X di Bong Joon-ho
Prima ancora di avere un ampio merito artistico, Bong Joon-ho si è rivelato un personaggio carismatico, assolutamente perfetto per attirare l'attenzione necessaria sul suo progetto. Già nella notte dei Golden Globes si poteva intuire come i più patinati nomi di Hollywood lo considerassero un loro pari (e quindi temessero la concorrenza del suo film). L'uomo più chiacchierato, quello più atteso sul red carpet insieme a Brad Pitt e più immortalato nei selfie delle star era lui: tutti volevano una foto insieme al regista del momento.
La barriera linguistica ha imposto la presenza di un interprete in tutti i momenti topici, ma ha permesso al regista di esprimersi al meglio, senza venir rallentato dai limiti del suo inglese. Altri limiti un outsider come lui non ne aveva: fuori dai giri di Hollywood e dallo strapotere degli studios, ha potuto permettersi di infilare tutta una serie di battute divenute iconiche, figlie del suo umorismo tagliente, secco, efficace. Durante un'intervista in cui gli viene detto chiesto cosa ne pensi del fatto che una cinematografia ruggente come quella coreana non sia mai stata nominata agli Oscar arriva a dire:
È un po' strano, ma non importa. Gli Oscar non sono un festival internazionale. Sono molto locali.
Chi ha buona memoria ricorda che Bong Joon-ho non è il primo a sottolineare come gli Oscar siano meno importanti della vittoria a Cannes. L'aveva già fatto Abdellatif Kechiche dopo che La vita di Adele non venne scelto come candidato francese per gli Oscar, sostenendo di non essere interessato a un premio decisamente meno prestigioso della Palma d'oro già conquistata. Laddove il tunisino naturalizzato francese Kechiche suonò insopportabilmente sciovinista, Bong Joon-ho con quell'uscita ha guadagnato la simpatia generale, generando un buzz fortissimo e aumentando ancor di più la curiosità nei suoi confronti.
Ospitate in TV, interviste sui giornali, approfondimenti: la sua ironia non mediata ma comunque pacata ha fatto il resto. L'umorismo coreano di Bong Joon-ho è entrato nell'immaginario collettivo tanto quanto l'addominale di Brad Pitt in C'era una volta a...Hollywood e non a caso oggi entrambi rientrano a casa con un Oscar nella borsa.
Le prove generali: Snow Piercer e Okja
Tra Parasite e Madre, l'ultimo film di BongJoon-ho girato in coreano, sono passati dieci anni. Più o meno consciamente, in questo decennio Bong Joon-ho ha preso le misure della cinematografia statunitense e dei gusti e delle esigenze del pubblico occidentale. Con un passato filmografico che non ha disegnato il genere horror e con un dinamismo perfetto per l'action, il regista non ha fatto troppa fatica a organizzare il suo debutto hollywoodiano. Correva l'anno 2013 quando in sala arrivava forse il suo film più commerciale di sempre, Snowpiercer. È stato il primo contatto del grande pubblico con un regista fino ad allora noto nell'ambito festivaliero e ai cultori di cinema del sudest asiatico.
Come non citare poi un certo Tarantino, che ne ha inserito spesso i film nelle sue classifiche di fine anno, quando ancora il nome del regista era pressoché sconosciuto. Questa menzione di Tarantino ha giocato un ruolo fondamentale per molti registi stranieri: anche Park Chan-wook, collega e connazionale di Bong Joon-ho, ricorda spesso di essere stato scoperto così, quando Tarantino consigliò il suo film Joint Security Area, campione d'incassi in patria ma ancor oggi quasi sconosciuto all'estero.
Snowpiercer è stato il progetto perfetto per introdurre il pubblico occidentale al talento del regista in modo morbido: tratto dal fumetto fantascientifico Le Transperceneige e con protagonista Chris Evans, è un film tra l'apocalittico e l'action, la cui ambientazione claustrofobica mette in risalto le doti di regista di Bong Joon-ho, rimanendo nel pieno contesto dell'intrattenimento.
Qualche anno più tardi il regista ci riprova con un soggetto originale prodotto da Netflix e presentato a Cannes. Okja però finisce al centro della contesa tra Croisette e Netflix sulla distribuzione dei film nelle sale e la pellicola dal taglio miyazakiano finisce in secondo piano nel pieno della querelle relativa. Questa fiaba ecologica gentile dai guizzi finali diabolici è il film più debole della sua carriera recente, ma gli permette di lavorare con star come Tilda Swinton e Jake Gyllenhaal, cominciando a farsi conoscere ai party e alle premiazioni hollywoodiane.
Coreano ma non troppo
Forte dell'esperienza con gli studios, che chiude senza strappi (a differenza di Park Chan-wook e altri colleghi rimasti scottati dal modo di fare cinema della major), Bong Joon-ho comincia a lavorare al suo nuovo film, che mescola humour nero e thriller per raccontare l'involuzione della lotta di classe in Corea del sud. A Cannes il regista dichiarò che un film come Parasite non è davvero comprensibile nei suoi messaggi al di fuori della Corea. Tuttavia comparandolo con i precedenti Madre e Memorie di un assassino sia lo stile sia il messaggio appaiono smussati e universali, meno specifici del solito. Inoltre il film funziona anche come prodotto autoriale travestito da film di largo consumo ed esportabile ad ogni latitudine.
Parasite è abbastanza esotico da essere cool - con il suo cast istrionico e i tic e il modo di fare e di muoversi tipico della recitazione coreana - ma non è così alieno da risultare straniante e respingente per un pubblico sospettoso come quello americano. Allo stesso modo la storia si presenta come una fortissima critica alla società classista coreana, ma a ben vedere scarica le colpe sul sistema e non sui ricchi, che si limita a irridere per la loro dabbenaggine. Insomma, il film ideale da abbracciare per attori e registi impegnati sul sociale ma spesso multimilionari, con contratti e sponsorizzazioni da capogiro.
Non manca ovviamente l'incontestabile genio di Bong Joon-ho. Il regista e sceneggiatore lavora quasi come nel mondo del fumetto, disegnando maniacalmente ogni scena con storyboard e vignette e immaginando il film in ogni sua composizione e dettaglio ancor prima di cominciare a girare. Esattamente come faceva Alfred Hitchcock (omaggiato in un piccolo easter egg nella pellicola) che sosteneva che girare un film dopo averlo pianificato fosse la parte più noiosa del suo lavoro.
La maestria con cui Bong Joon-ho muove la cinepresa, disegna gli spazi della villa di Parasite e racconta la storia con sovrapposizioni dinamiche complesse di personaggi e luoghi ne fa uno dei migliori registi in circolazione, senza dimenticare che è un autore di soggetti originali davvero fuori dal comune. Parasite è un grande film, seppur con qualche sbavatura qua e là. L'impressione è che più che errori siano semplificazioni che rendono il suo cinema caustico e talvolta durissimo più digeribile per un pubblico (in sala e all'Academy) che vuole indignarsi senza però essere destabilizzato o peggio, sentirsi fare la predica (vedi la vittoria di Green Book l'anno scorso). A Cannes non sono mancati film che raccontavano ricchezza e povertà in maniera durissima: il lodatissimo Sorry We Missed You di Ken Loach, Ritratto della giovane in fiamme, lo stesso Dolor y Gloria di Pedro Almodovar in cui il regista spagnolo racconta la sua infanzia di povertà e la lotta per avere un istruzione.
Insomma, Parasite ha trionfato agli Oscar perché un gran bel film, ma ancor di più perché dietro la pellicola c'era la persona e il personaggio giusto per attirare l'attenzione del pubblico, in un momento storico favorevole a questo tipo di aperture. Una congiuntura favorevole, un pizzico di fortuna, un grande film, ma soprattutto una personalità carismatica, capace per esempio di sottolineare la pigrizia dello spettatore statunitense che snobba i film con i sottotitoli con ironia ma senza mai risultare offensivo.
Un successo personale
Il successo di Bong Joon-ho è soprattutto personale: gli Oscar vinti (regia, sceneggiatura e i due miglior film) sono emanazione diretta del suo lavoro. Nelle categorie tecniche terze il film non ha saputo imporsi (pur avendo una resa impressionante, vedi per esempio al montaggio). Alla vigilia dell'annuncio dei candidati, tanti speravano in una nomination di pregio per il regista di Parasite, ma nessuno sembrava aver preso in considerazione l'ipotesi di candidare la super star coreana Song Kang-ho come attore protagonista. Come mai? Eppure la prova del cast è stata definita dalla critica come una delle migliori dell'annata.
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La scalata al successo di Parasite però è stata iscritta come l'opera struggente di un formidabile genio, non come lo sforzo comune di un collettivo formidabile. Tanto che tutti conoscono il nome di Bong Joon-ho, mentre è difficile che qualcuno si ricordi di Song Kang-ho, anche se paradossalmente è forse l'attore coreano più famoso al mondo, un'icona del circuito festivaliero e un nome feticcio per tanti grandi registi coreani. Il successo di Parasite è quindi parzialmente inaspettato, sapientemente pianificato ma soprattutto personalissimo.
Insomma, viene quasi da chiedersi se a imporsi davvero sia stato il film o Bong Joon-ho.
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