The Witcher: lo strigo di Netflix ha un futuro?

La terza stagione di The Witcher mostra le debolezze della serie di Netflix: senza un'identità può ancora avere un futuro?

Autore: Manuel Enrico ,

Mentre Nilfgaard sembra inarrestabile nel suo intento di dominare l’intero continente, Geralt di Rivia appare sempre più impotente, inerme di fronte alla marcia trionfale del suo nemico più letale. La trama della terza stagione di The Witcher, la cui seconda parte arriverà su Netflix il prossimo 27 luglio, non solo segue quanto raccontato da Sapkowski nei suoi romanzi, ma si può considerate un’allegoria dello stato attuale della serie. Una condizione tutt’altro che rosea, che vede la serie fantasy di Netflix arrancare faticosamente, stancamente.

Per quanto spinta da un brand di sicuro richiamo, specialmente nel contesto videoludico, The Witcher non sembra in grado di mantenere la promessa fatta ai sottoscrittori del servizio streaming di Reed Hastings. Presentata come una produzione di alto profilo, destinata a essere la pietra di paragone della serialità fantasy contemporanea, The Witcher si è progressivamente sgretolata sotto il peso di una predestinazione forse troppo gravosa.

Va ammesso che il fantasy nella serialità non sta mostrando particolare solidità, come dimostrato da altri titoli del calibro de La Ruota del Tempo o Gli Anelli del Potere, ma quello che preoccupa maggiormente delle avventure dello strigo è la sempre più marcata sensazione che si sia persa l’anima della saga.

Quale potrebbe essere il futuro di The Witcher su Netflix?

Non è solamente il drastico calo degli ascolti, che si aggira attorno al 30%, ma la sensazione che dopo un’acerba ma promettente prima stagione The Witcher abbia sofferto una miopia narrativa, che si è inevitabilmente riflessa nella resa complessiva della serie. Possiamo riconoscere l’attenuante di una seconda stagione nata all’ombra della pandemia, con set blindati e lavorazione in condizioni tutt’altro che ideali, ma questo alibi perde di consistenza nel momento in cui la Big N dell’intrattenimento streaming ci presenta il terzo capitolo della serie.

Dietro l'apparente debolezza di The Witcher possiamo identificare tre aspetti:

The Witcher: il complesso passaggio da libro a serie

Prima di puntare il dito contro la debolezza di The Witcher, è necessario riconoscere un’attenuante a questa serie: il materiale originario è estremamente complicato da adattare. La genesi del The Witcher letterario è convoluta, inizialmente concepita come antologia di racconti e solo in seguito trasformata in un corpus narrativo più completo e intrecciato.

Non dimentichiamo come Lauren Hissrich non abbia attinto alla versione videoludico di The Witcher,  più solida sul piano di continuity e interconnessioni tra i personaggi, ma si sia affidata alla forma primigenia dei romanzi di Sapkowski. Che sono, senza mezzi termini, un vero inferno da trasformare in una narrazione seriale televisiva.

Salti temporali, racconto spezzato spesso in modo asincrono e con linee narrative ancora oggi, dopo la conclusione, tutt’altro che perfettamente concluse. Lavorare su un materiale simile, pur con tutta la libertà di poter adattare la storia al medium televisivo, non è semplice, rende complesso creare un prodotto che possa incontrare il favore di un pubblico particolarmente attento, sempre più avvezzo a una narrazione che non lascia sospesi ma che deve spiegare tutto, rapidamente.

Ironicamente, la prima stagione di The Witcher è stata la più solida sotto questo aspetto. Basata sui primi racconti di Sapkowski, di cui ha mutato anche la criticata narrazione su diverse linee temporali, la libertà di cui hanno goduto le prime avventure di The Witcher aveva il merito di cogliere le giuste sfumature, tanto umorali quanto visive, di un’ambientazione gretta, fredda e meschina. Il mondo di Geralt sembrava crudelmente autentico, complice l’estrema convinzione cui Henry Cavill portava in scena il suo strigo.

Soprattutto, la prima stagione, forse per scarsità dei mezzi, risultava maggiormente credibile sul piano visivo. L’ambientazione acida e violenta risaltava in un ritratto sporco e algido, in cui la meschinità di certi passaggi trovava un eco empatica in tinte cupe e nella scelta di una ricostruzione, tanto scenografica quanto registica, ruvida e suggestiva. Aspetti perduti nella seconda stagione, dove traspare quasi uno sforzo eccessivo nel voler ambire a uno stile filmico più alto, una ricerca spasmodica di un’anima di produzione da alto budget che ha finito per svilire l’animo autentico di The Witcher.

Ripensando alle critiche mosse alla prima stagione, oggi si potrebbe sorridere. Quei moniti per una CGI non sempre all’altezza, la sensazione che nei racconti fortemente verticali ci fosse una sottile orizzontalità che attendeva di essere solo approfondita in futuro si stanno trasformando in segni di genuina volontà narrativa, nei tentativi di creare, anche sbagliando i primi passi, un grande racconto fantasy.

C’era un’anima, insomma, imperfetta è vero, ma comunque segno di un’identità, che anche nelle sue fragilità riusciva comunque ad attrarre lo spettatore. Premesse e promesse, che hanno convinto gli spettatori a rimanere al fianco di Geralt, ma quanto si può promettere prima di onorare l’impegno preso?

The Witcher non ha una vera identità

Nello spietato mondo della serialità, le promesse vanno mantenute rapidamente. O si finisce per fare l’errore che la Hissrich e la produzione di The Witcher hanno commesso: perdere di lucidità. A partire dalla seconda stagione della serie, infatti, si è percepita una progressiva perdita di coesione tra personaggi e storia, tra continuity e momenti intimi dei personaggi.

Inutile negarlo, il fascino di The Witcher era poggiato tutto sulla carismatica figura di Geralt di Rivia, il cui magnetismo nella serie era accentuato dall’avere il volto di Henry Cavill. Un’immedesimazione che non è servita a dare ossigeno alla serie, ma ne è divenuta al contrario la lapide nel momento in cui è stato annunciato l’addio dell’attore inglese al personaggio.

 Ma la fine non è data dal solo abbandono di Cavill, sia chiaro, la condanna è figlia di una mancanza di lucidità nel dare profondità agli altri personaggi, offrendo una Cirilla che passa da oggetto del contendere a grande ago della bilancia in una puntata, o dall’utilizzo maldestro di Yennefer, mossa da emozioni e intenzioni sin troppo caotiche, spesso asincrone rispetto alla linearità della trama.

La confusione che anima le due figure più vicine a Geralt influenza negativamente il resto della produzione. Se anche Sapkowski aveva peccato in alcuni passaggi di una volontà di inserire sin troppi elementi narrativi, nella dimensione letteraria questa pecca era stata progressivamente riassorbita grazie a una diversa meccanica del medium. Sul piano seriale, al contrario, sembra che gli sceneggiatori abbiano voluto puntare alla direzione opposta, andando ad appesantire un concept narrativo sufficientemente ricco, anziché cercare di alleggerire di alcuni elementi manichei l’intera trama.

Anziché lavorare nella definizione dei villain, resi quasi come stereotipi funzionali alla storia, o alla caratterizzazione di elementi fondamentali, quale ad esempio il comparto magico, si è voluto scimmiottare a un certo punto la complessità politica di Games of Throne. Peccato che la serie di HBO, oltre ad avere una writing room di tutt’altra levatura, avesse al proprio arco anche la presenza del creatore delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, che oltre a scrivere puntate di grande impatto ha anche aiutato gli sceneggiatori nell’adattare e modificare all’occorrenza le proprie idee iniziali.

Colpa dell’ego della Hissrich e del suo team, o del palese disinteresse di Sapkowki? Probabilmente entrambi. Cinicamente potremmo rilevare come il successo della versione videoludica di The Witcher abbia sollevato l’ira di Sapkowski, spingendolo a una futile e imbarazzante causa, segno che avrebbe dovuto far ripensare alla produzione di Netflix il proprio approccio: e se fosse stata proprio la versione di CD Projekt Red il ‘vero’ Geralt di Rivia? Se non quella originale, quantomeno quella più amata dal pubblico.

Sapkowski ha l’ovvio merito di avere tracciato una prima vita di Geralt, evolvendo il suo ciclo introducendo elementi di graffiante contemporaneità come razzismo, emancipazione e avidità del potere, ma è innegabile che il fallace utilizzo visto nella seconda metà della sua saga sia stato al contrario corretto dagli scrittori di CD Projekt Red.

Che sono rimasti invisibili, in questa declinazione seriale, dove Geralt è finito in mano a una writing room più interessata a calcare pesantemente la mano su determinati temi, ribadendoli palesemente a oltranza, che non a renderli coesi alla trama.

Invece, narrazione frettolosa per inserire quanti più dettagli e intrighi possibili, anziché ricordare che per offrire una trama solida, specialmente in contesti politicamente complessi, serve calma, è necessario il tempo per lasciare che la machiavellica anima dei personaggi si manifesti. The Witcher, invece, vuole fingere una costruzione emotiva e sociale di spessore, salvo poi mostrare la sua estrema fragilità con spiegazioni rapide, gesti sconsiderati e frasi ad effetto che non acuiscono la tragicità del momento, ma anzi arrivano al punto di annullarla.

The Witcher non è una serie universale

La fine dello strigo di Netflix non è l’abbandono di Cavill. Non è nemmeno nella scrittura raffazzonata e poco ispirata, ma è ancora più in profondità. La debolezza di questa serie è la mancata comprensione, da parte della Hissrich in primis, dello spirito autentico dell’opera di Sapkowski, che non è un fantasy tradizionale, ma un racconto sui generis.

The Witcher, nella dimensione letteraria a cui la produzione Netflix si ispira, non era concepito come un racconto universale, quanto per essere un’idea che parla a un pubblico preciso, capace di leggere tra gli eventi e di muoversi agilmente in un modus operandi convoluto e complesso. Adattare un simile concept significa comprenderne le regole e proteggerle, vigilare ansiosamente sul loro rispetto, perché il primo pensiero deve essere rivolto a cogliere il favore della fan base.

Netflix ha compiuto l’errore di vedere in un cult contemporaneo l’occasione di creare una serie da proporre a un ampio target di utenza. Forse confondendo il successo del videogioco, che si muove su altre direttrici narrative, con i romanzi originari, non capendo la profonda diversità tra i due media. E in questo errore, si è costruita una serie che, giunta alla terza stagione, sembra muoversi stancamente su una mancanza di identità.

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