I migliori film con Brad Pitt protagonista

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Autore: Max Borg ,

Classe 1963, Brad Pitt è da decenni uno dei volti più amati del panorama hollywoodiano: lanciato da un ruolo minore in Thelma & Louise (per il quale fu provinato anche il futuro amico George Clooney), si è gradualmente imposto come volto carismatico e versatile nel corso degli anni Novanta, conquistando la sua prima nomination all’Oscar nel 1996. Ha interpretato poliziotti e truffatori, astronauti e stuntmen, sempre con la stessa voglia di mettersi in gioco, soprattutto quando è diretto da David Fincher, il primo che ha veramente avuto l’intuizione di demolire la sua immagine di bel ragazzo. 

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Ha anche un notevole talento per l’autoironia, come dimostra la nomination all’Emmy per la sua apparizione in un episodio di Friends, dove il suo personaggio odiava con tutto il cuore Rachel Green (la cui interprete Jennifer Aniston all’epoca era la consorte del divo). Ma anche l’Oscar conquistato come non protagonista per il ruolo di Cliff Booth, la controfigura delle star nella Hollywood alternativa e fintamente nostalgica immaginata da Quentin Tarantino. 

Come molti colleghi della stessa generazione ha anche capito in tempi non sospetti che il concetto di star nel sistema americano odierno è cambiato radicalmente, e così si è dato anche alla produzione, creandosi un nuovo percorso altrettanto valido e appassionante. Basti pensare che è proprio in veste di produttore che ha vinto il suo primo Oscar, quello per il miglior film, assegnato nel 2014 a 12 anni schiavo (dove Pitt ha anche una parte minore, oggetto di controversia quando il film è uscito in Italia poiché uno dei poster lasciava intendere visivamente che fosse lui il protagonista). 

Insomma, una carriera eclettica, che nel corso degli anni ha sfornato diversi film notevoli. Ma quali sono i migliori di cui Pitt è protagonista? Eccoli qua. 

Fight Club

La seconda di tre collaborazioni con David Fincher, una satira feroce nei confronti del consumismo e delle corporazioni, al punto che Fincher dovette farsi promettere libertà creativa totale per non subire interferenze da parte della 20th Century Fox, che finanziava il progetto. Brad Pitt è al contempo quasi all’apice della forma fisica e al massimo del coraggio interpretativo nei panni di Tyler Durden, misterioso psicopatico che convince l’anonimo narratore (Edward Norton) a fondare un club clandestino dove uomini frustrati si sfogano facendo a botte. Un piccolo gioiello di rabbia e anarchia.

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Perché vederlo? Perché Fincher ha sempre voluto mettere alla prova l’immagine che tutti hanno di Pitt, e Tyler Durden ne è l’espressione più violenta e libera. Ancora oggi rimane l’interpretazione più bella e memorabile dell’attore. 

Seven

Primo tassello del sodalizio con Fincher. Siamo dalle parti del poliziesco, e Pitt interpreta il giovane poliziotto David Mills, assegnato come partner al veterano William Somerset (Morgan Freeman) per indagare su un feroce serial killer. Un thriller sporco e disperato, nonché indice del potere contrattuale che Pitt aveva già a metà degli anni Novanta: lui e Morgan Freeman minacciarono insieme di abbandonare il progetto quando i produttori proposero di edulcorare il celebre finale, indimenticabile per la sua efferatezza. 

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Perché vederlo? Per il concentrato di carisma, vulnerabilità e disperazione che Pitt conferisce a Mills, e per l’atmosfera lugubre che ha introdotto su scala globale il talento di Fincher quando questi è senza freni. 

Bastardi senza gloria

“C’era una volta nella Francia occupata dai nazisti”, recita il titolo del primo dei cinque capitoli in cui è scandito il sesto film di Quentin Tarantino, una riscrittura della Storia che rilegge il filone dei lungometraggi d’azione bellici in chiave squisitamente eccessiva. Un eccesso di cui Brad Pitt si fa portavoce nei panni del tenente Aldo Raine, il leader dei Bastardi: la loro missione consiste nell’uccidere il maggior numero possibile di nazisti, e scalpare i cadaveri di tutti i tedeschi che opporranno resistenza. Di culto la scena dove deve fingersi italiano (siciliano nella versione doppiata per il mercato nostrano). 

Perché vederlo? Perché il secondo conflitto mondiale reinterpretato da Tarantino è una magnifica lezione di sceneggiatura, e perché Pitt si è visibilmente divertito un mondo nel ruolo di Raine. 

The Tree of Life

Raro caso di film dove lo star power può avere effetti indesiderati, perché è facile immaginare che la gente sia andata a vedere il quinto lungometraggio di Terrence Malick per la presenza di Brad Pitt, salvo poi rendersi conto di avere a che fare con qualcosa di non proprio tipicamente hollywoodiano. E se a far parlare di sé è stata soprattutto Jessica Chastain, mentre Sean Penn ha parzialmente disconosciuto il progetto perché la sua parte è stata ridimensionata in sede di montaggio, non va trascurato Pitt che è parte integrante del cuore dolente del flusso di coscienza di Malick su vita e morte.

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Perché vederlo? Perché quello di Malick è un universo affascinante, per quanto lo si possa anche considerare respingente, e Pitt è sorprendente nel contesto di un progetto che non si avvale degli attori in modo classico. 

L’esercito delle 12 scimmie

Tecnicamente si potrebbe discutere della presenza di questo film in classifica, dato che Brad Pitt in questo caso è stato candidato all’Oscar come non protagonista, ma la sua è una partecipazione che impreziosisce ulteriormente i deliri visionari di Terry Gilliam, con un’energia caotica che ben si sposa con lo stoicismo di Bruce Willis. Un’energia che non è interamente frutto della recitazione pura: pare che Gilliam avesse vietato a Pitt, all’epoca tabagista incallito, di fumare durante le riprese. 

Perché vederlo? Perché è uno dei primi esempi di come Pitt abbia sempre cercato di allontanarsi dalla banale immagine di sex symbol, con risultati molto interessanti. 

Intervista col vampiro 

È famoso l’aneddoto secondo cui Anne Rice, autrice del libro, si oppose alla scelta di Tom Cruise per il ruolo del perfido e perverso Lestat de Lioncourt. Nessuna lamentela, invece, per Brad Pitt nei panni di Louis de Pointe du Lac, il vampiro depresso che racconta le proprie sofferenze a un giornalista. Un magnifico affresco sul dolore eterno, con l’immortalità che diventa sinonimo di tristezza. 

Perché vederlo? Per l’insolita accoppiata Cruise – Pitt, con due divi che si mettono in gioco sfidando le convenzioni del sex symbol hollywoodiano. 

Il curioso caso di Benjamin Button

Terzo (e per ora ultimo) film in cui Brad Pitt è diretto da Fincher, e forse il più coraggioso e ambizioso. Basato su un racconto di F. Scott Fitzgerald, è la storia di un uomo, Benjamin Button appunto, che nasce anziano – quasi decrepito – e continua a invecchiare al contrario. Un impressionante lavoro di effettistica tramite performance capture e CGI, che consente all’attore di mettersi alla prova poiché per gran parte della durata del film non vediamo la sua “vera” faccia. 

Perché vederlo? Per il ritratto insolito dell’America del Novecento, con le varie età invertite di Benjamin a fare da guida. 

Babel

Prima di diventare Benjamin Button per Fincher, Pitt aveva già provato l’esperienza di una performance “invecchiata” per Alejandro González Iñárritu, con inediti capelli grigi nei panni di Richard, un uomo che fa di tutto per salvare la moglie quando viene accidentalmente ferita durante un viaggio in Marocco. Una magnifica tragedia corale, il cui episodio più potente sul piano emotivo è quello africano, con il divo spogliato di ogni fronzolo hollywoodiano per incarnare la vulnerabilità di un uomo che è impegnato in una corsa contro il tempo. 

Perché vederlo? Perché il lavoro stratificato del regista messicano, qui per l’ultima volta coadiuvato dallo sceneggiatore Guillermo Arriaga, non lascia mai indifferenti, e la performance priva di ego da parte di Pitt è molto commovente. 

Babylon

L'apice della decadenza dello star system americano secondo Damien Chazelle, in una Hollywood che è colta impreparata dall'arrivo del sonoro (come potete anche leggere nel nostro approfondimento sul finale di Babylon). Contesto ideale per Pitt per riflettere sulla condizione dell'attore come divo sul viale del tramonto, con una performance malinconicamente istrionica. 

Perché vederlo? Perché Chazelle restituisce la giusta opulenza alla Hollywood che fu, e Pitt che per certi versi si prende in giro da solo, anche se con un sottofondo amaro, è tra gli elementi più struggenti e irresistibili. 

L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford

In mano al regista Andrew Dominik, aiutato dal grandissimo direttore della fotografia Roger Deakins, Brad Pitt contribuisce al tono elegiaco di questo western crepuscolare con una performance meditativa nel ruolo del celebre fuorilegge. E anche se molti hanno prestato attenzione soprattutto a Casey Affleck nei panni di Ford, è il Jesse James di Pitt che dà al film la sua identità un po’ fuori dal comune. 

Perché vederlo? Perché la rilettura del mito della frontiera a opera del regista australiano è un lavoro affascinante sul piano tematico e visivo, con due ottime interpretazioni al suo centro. 

C’era una volta a Hollywood

Ancora Tarantino, e questa volta con tanto di Oscar, tecnicamente come non protagonista anche se Cliff Booth, per usare il gergo americano, è a tutti gli effetti un co-lead insieme al Rick Dalton interpretato da Leonardo DiCaprio. Una figura complessa e controversa, osteggiata da tutti, ma anche un amico tremendamente leale, al quale Brad Pitt dà la matura consapevolezza di stare lavorando in un’industria pronta a scartarlo in qualsiasi momento. 

Perché vederlo? Perché Cliff è al contempo l’apogeo della maschera hollywoodiana associata a Pitt, e una geniale decostruzione della stessa. E perché la Los Angeles del 1969 ha uno charme amaro da non sottovalutare. 

Ocean’s Eleven

Tecnicamente un film corale, anche se fin dal titolo c’è un protagonista indiscusso, il Danny Ocean interpretato da George Clooney. E a pari merito con lui c’è il Rusty Ryan di Brad Pitt, co-organizzatore del colpo, sempre in movimento e con qualcosa da addentare (un’intuizione geniale dello stesso attore, che giunse alla conclusione che non avrebbe senso per Rusty fermarsi a mangiare come si deve). Un esempio letterale di fascino criminale, al servizio di una grande commedia calibrata al millimetro. 

Perché vederlo? Perché la trilogia di Steven Soderbergh è un grande esempio di divertimento eseguito con criterio e voglia di intrattenere, e il primo capitolo è il più irresistibile. 

L’arte di vincere

Lo stesso anno della collaborazione con Malick, Brad Pitt è stato in sala anche con questo dramma sportivo basato su eventi reali, sulle difficoltà nel mettere insieme una squadra vincente di baseball con un budget limitato. Il classico racconto dell’underdog che piace tanto al pubblico americano, supportato dalla prova matura di un attore che, all’epoca prossimo ai cinquant’anni, non sente più il bisogno di essere percepito a tutti i costi come una star (difatti di questo film è stato anche produttore). 

Perché vederlo? Perché sentire i dialoghi di uno sceneggiatore come Aaron Sorkin è sempre un piacere, e Pitt li recita con grande naturalezza.

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