C’è un prima e dopo The Raid, un prima in cui l’action si ibrida al thriller, si parassita alle spy-story e ai war-movie, un dopo fatto di John Wick e filiazioni epigoniche, di cinema che si riscopre delle attrazioni, tutto mostrativo e muscolare, di virtuosismi cinetici di corpi e macchina da presa. Il dittico di Gareth Evans rimette al centro l’azione distillata e riporta in auge combattimenti asimmetrici di irriducibili che sbaragliano orde infinite.
Dopo una parentesi horror con Apostolo e un’incursione nella serialità con Gangs of London, con Havoc il regista britannico torna all’azione dura e pura per Netflix, con Tom Hardy nei panni dell’highlander di turno in un film dall’impianto neo-noir con armi da fuoco a sostituire le arti marziali.
Di cosa parla Havoc?
Walker è un agente della omicidi invischiato in giri poco leciti e impantanato nelle conseguenze di un passato che non ammette redenzione. Sa come muoversi tra i sobborghi, nel lerciume di una città in cui è il liminale a stare a galla, a venire in superficie. Un’intricata rete di corruzione che vede coinvolti il candidato sindaco Lawrence Beaumont (Forest Whitaker), la mafia cinese e le mele marce della polizia locale, costringe Walker a gettarsi nella mischia nel tentativo di risanare le questioni aperte.
Havoc è un film di tempismo, di chi arriva e di chi subentra, di guai che procedono per addizione, di armati fino al collo che varcano le entrate di locali notturni con le armi cariche e le dita sul grilletto. È poi un film che deve molto al linguaggio videoludico, e per Gareth Evans non è una novità. Se, infatti, in The Raid il regista attingeva a piene mani dall'immaginario dei tower climb games, con una struttura narrativa fondata sulla progressione e sui “boss di fine livello”, nel nuovo film Netflix Evans dimostra di aver interiorizzato codici visivi e dinamiche action nelle sezioni da wave-based combat.
Eredità videoludiche
Innanzitutto, quella di Havoc è una macchina da presa estremamente libera di muoversi, che si divincola da un antropocentrismo limitante e rincorre una fluidità nell’attraversamento dello spazio che la equipara a una floating camera da videogioco. È così sia quando ci si deve muovere tra strade, vicoli e binari di una città che vive dopo il crepuscolo e che si palesa reticolare (e la macchina da presa ci dice che è una rete che sussiste aprioristicamente e al di sopra del protagonista), sia quando si colloca in punti impraticabili nel corso di inseguimenti che sembrano cutscene estrapolate da un racing game con la polizia alle calcagna.
Poi, nei momenti più concitati, con due ambientazioni ben ascrivibili a convenzioni videoludiche - il night club come arena da ripulire e la casa-fortino come avamposto precario da cui respingere l’assalto - il film lancia addosso al protagonista nemici su nemici che sembrano spawnare all’infinito e quasi mai paiono costituire pericolo. Havoc è la fiera degli scagnozzi con caricatori infiniti ma mire da rivedere, con un istinto di sopravvivenza clamorosamente assopito - e qui la sospensione dell’incredulità vacilla irrimediabilmente - e una strana inclinazione a farsi crivellare di colpi.
È, però, questo aspetto a renderlo cinema materico, non nella sua fattura ma in quella del profilmico, di massa frangibile, penetrabile, di un’interazione ambientale che è ancora mutuazione videoludica. Non solo corpi martoriati e perforati da una varietà di armi da fuoco - che, ancora, non nasconde la velleità dimostrativa sia della gamma completa di un armamentario da sparatutto, sia nei sanguinosi effetti sui bersagli - ma anche una scenografia a cui tocca la stessa sorte e che proprio nella sua distruttibilità si manifesta tangibile.
Sotto i bossoli...altri bossoli
Ma sotto i muscoli e i cumuli di bossoli rimane qualcosa? Per quanto la narrazione di Havoc non si risparmi in termini di elaborazione, tanto da intessere anche in quel senso una fitta ragnatela di pedine ed espedienti cospiratori, ne risulta più un’intenzione steroidea, una ricerca continua dell’ipertrofia compositiva. Complicazioni e colpi di scena sono, insomma, cercati più in funzione della spettacolarizzazione dell’intrigo, del garbuglio simulato, che dell’effettiva complessità drammaturgica. E proprio per questo riesce difficile avere davvero a cuore le sorti dei personaggi, che si tratti del protagonista o dei comprimari, e anche quando in nome della crudezza e del trionfo della violenza il film di Gareth Evans non lesina dove altri si conterrebbero, il potenziale drammatico ne esce sterilizzato.
Havoc ha comunque dalla sua la volontà di suscitare una sorpresa sempre amena seppur mai investita di trasporto empatico. E senza voler aderire alla retorica giustificatoria che vuole che i film d’azione facciano azione e poco più, a un action che di quella componente fa la sua ragion d’essere (nonostante in prima battuta sembri voler accarezzare il poliziesco procedurale) forse di più non si può davvero chiedere, e forse non vuole darlo. Insomma in Havoc contano più le pallottole che i sentimenti, con buona pace degli sporadici accenni (che in realtà è leitmotiv tra i personaggi) alle difficoltà di una genitorialità guastata da un’esistenza malavitosa.
Alla mancanza - che più che lacuna è quindi questione strutturale - il film sopperisce però con un’eccellente costruzione dell’atmosfera di una città che un po’ sembra Gotham City e un po’ strizza l’occhio al cyberpunk, senza cyber e senza punk, ma con lo stesso declino sociale e ambientale, la stessa germinazione di nuclei criminali e corrotti, stesso antieroe in uno spazio urbano degradato, e poi tante luci artificiali di insegne al neon e night club.
Commento
Voto di Cpop
68Pro
- L'ibridazione con il linguaggio videoludico
- L'atmosfera crepuscolare da neo-noir
- L'azione spettacolare e ben coreografata...
Contro
- ...che mette a dura prova la sospensione dell'incredulità
- Una narrazione troppo votata al colpo a effetto
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