Nel 1985 i Dire Straits pubblicavano il singolo Brothers in Arms, ispirato alle vicende della Guerra nelle Falkland. Di condanne contro la violenza nella storia del rock ce ne sono state tante, ma al gruppo britannico interessava allora insistere sull’aspetto più umano della tragedia e sui rapporti di fratellanza instaurati dai soldati nei momenti più bui.
Dieci anni dopo, quando lo scrittore polacco Andrej Sapkowski si accingeva a completare il terzo romanzo della saga di The Witcher, scelse di aprirlo con una citazione tratta proprio dalla canzone dei Dire Straits e trasse spunto da essa anche per il nome del libro.
Through these fields of destruction
Baptism of fire
I've witnessed your suffering
As the battle raged high
And though they did hurt me so bad
In the fear and alarm
You did not desert me
My brothers in arms
Il battesimo del fuoco è appunto una storia di fratellanza nata al tempo di una guerra insensata. Al centro vi è un gruppo di persone tanto diverse tra di loro quanto complementari, che si ritrovano a viaggiare insieme volenti o nolenti. Ognuno porta con sé un bagaglio di dolore e un peccato da espiare e pur di riuscirci è pronto a lanciarsi anche nel fuoco. Il fuoco infatti brucia e distrugge, ma al contempo purifica. La guerra, personale o collettiva, diventa invece un rito, un battesimo che forgia attraverso la sofferenza e l’orrore.
Siamo abituati a pensare che la guerra divida, ma Sapkowski, come i Dire Straits, riesce a raccontarla dalla prospettiva dei legami inscindibili che si creano tra persone altrimenti incompatibili. E ci riesce con quello che uno dei libri migliori della saga.
Diamo a Geralt quel che è di Geralt
È dallo strigo Geralt di Rivia che l’intera storia raccontata nella saga si dipana, ma solo raramente lui ne è l’eroe, più spesso è solo un tramite verso altri personaggi ed eventi. Arrivato al terzo libro della serie però Geralt si riprende il suo posto e diventa il vero motore della vicenda.
La lunga sosta a Brokilon, dopo gli eventi di Thanedd, restituisce un personaggio diverso, ferito nel corpo come nell’anima. Tutto il dolore e la rabbia che hanno sempre fatto parte di lui si trasformano in qualcosa di sconosciuto: impotenza e rassegnazione. Ciri diventa lo spettro del suo fallimento e ritrovarla è l’unico modo per mettere a tacere paure e incertezze. Geralt si rimette così in viaggio, in sella all’ennesima Rutilia e con una particolare compagnia che metterà insieme lungo la strada, nonostante il desiderio di non trascinare nessuno nella sua ricerca di redenzione.
Non poteva mancare Ranuncolo, che cavalca con lui sin dalla partenza dalla dimora delle driadi. Anche il trovatore subirà una crescita interessante, che non intaccherà né la sua lingua lunga né la continua voglia di scherzare su ogni cosa. È presente sin dalle prime pagine anche Maria Barring detta Milva, arciera e combattente nata, che si lancia nell’avventura per capire meglio qual è il suo posto nel mondo e per ripagare un debito che ha intenzione di contrarre.
Si aggiungono poi Zoltan Chivay e la sua strana compagnia di nani e profughi, mossi da una filosofia di altruismo ma che non mancherà di colpire Geralt nel profondo. A più riprese nella narrazione si unisce poi Cahir Mawr Dyffryn aep Ceallach, non proprio il benvenuto, ma anch’esso mosso da una personale penitenza e ben intenzionato a trovare e proteggere Ciri. L’ultimo membro a raggiungere la compagnia è Emeil Regis, barbiere, cerusico, erborista, tuttofare e… vampiro.
Si ritorna quindi alla meccanica on the road, che si era rivelata perfetta già nei racconti per descrivere al meglio la natura del personaggio e della sua missione. Ora Geralt è profondamente cambiato così come lo scopo per cui si mette in marcia, ma il movimento è ancora la metafora perfetta per descriverlo. Anche perché questo viaggio, che segue ad una lunga convalescenza e che culminerà nella Battaglia del Ponte, rappresenta un rito di passaggio in cui Geralt lascia andare quella parte di sé persa definitivamente con la spada da strigo e accetta di diventare qualcos'altro. Geralt abbandona la neutralità una volta per tutte, schierandosi al fianco dei suoi affetti e dichiarando guerra ai veri mostri, in qualsiasi forma essi si presentino, con o senza stendardi.
Per ben due volte Geralt si trova davanti i mostri che dovrebbe uccidere per vocazione, ma li lascia andare allontanandoli senza nemmeno mettere mano alla spada. Sono creature che stanno scomparendo e che rappresentano un passato che va in qualche modo preservato dagli orrori del presente. Ma soprattutto è la sua vocazione ad essere cambiata e, come noterà Zoltan Chivay, i mostri per quanto brutti non hanno fatto nulla alla bambina-sorpresa. Geralt è pronto quindi a svestire i panni di strigo per diventare un cavaliere che corre a salvare la fanciulla rapita.
Il primo vero romanzo della saga
Il battesimo del fuoco pone fine alla sensazione, avuta sino a questo punto, che ogni libro altro non fosse che una raccolta di racconti spezzettati. È il primo vero romanzo della saga con una trama unitaria e coerente, che non si perde in modo confusionario su più piani temporali o saltando senza preavviso da un personaggio all’altro. La suddivisione in capitoli non è un’espediente puramente tipografico, ma per una volta è scandito in base a tematiche e personaggi chiari sin dall’inizio. La narrazione scorre senza intoppi, la lettura è piacevole e godibile tanto che si legge tutto d’un fiato. Anche la scrittura di Sapkowski raggiunge una notevole maturità, lasciando sempre meno al caso e diventando più abile nel show not tell.
Buona parte della narrazione è incentrata sulle vicissitudini di Geralt e della sua nuova compagnia, inframmezzate di tanto in tanto dallo sguardo esterno di personaggi secondari, che probabilmente non rivedremo più, ma che per quelle cinque pagine in cui rubano la scena, cambiano le sorti di molti.
Il focus passa poi continuamente su un gruppo di donne, o meglio di maghe reduci di Thanedd, convocate presso il castello di Montecalvo, dimora di Filippa Eilhart. Parte infatti da lei la volontà di costituire una lega atta e proteggere e preservare la magia. Dopo gli eventi che hanno determinato la distruzione del Consiglio, dettati dalle diverse simpatie politiche degli accoliti, è più che mai necessario che questa associazione sia segreta (senza arrivare nemmeno alle orecchie di Dijkstra) e composta da sole donne (più inclini a prendersi delle responsabilità e a governare con saggezza).
Le migliori maghe, appartenenti ad ogni razza e regno, sono invitate a parteciparvi, senza rinunciare alla propria ideologia politica, ma tenendo presente che è da loro che dipendono le sorti della magia. Questi incontri segreti non saranno però animati dal solo amore verso quest’arte, ma anche da odio, divisioni, cattiverie gratuite e ferite del passato che non si possono del tutto rimarginare. Pur unite in un scopo comune, le donne non possono dimenticare e il desiderio di vendetta sembra voler creare già delle crepe nella lega.
Ciri, invece, la cui crescita nei romanzi precedenti ci aveva ammaliato, sparisce quasi completamente dal radar. Il lettore avvertirà la sua mancanza, ma riuscirà a supplirla grazie ai sogni rivelatori di Geralt, che non faranno che aumentare le sue preoccupazioni (e le nostre) riguardo alla sorte della bambina sorpresa. Celata sotto gli occhi di tutti con il nome di Falka, dimentica a poco a poco chi è davvero, trovando conforto nel gelido abbraccio della crudeltà, sentendosi viva solo nella lotta e nella morte.
L’assenza di capitoli a lei dedicati non è una pecca, anzi, le poche pagine in cui compare sono risultano abbastanza esplicative tanto che intere parti su di lei e sul gruppo dei Ratti, sarebbero state a lungo andare molto monotone. Ciri è comunque sempre il centro della narrazione dato che è lo scopo finale sia del viaggio di Geralt sia della neonata lega delle maghe, rappresentando la legittimazione stessa della magia a livello mondiale.
La personale visione del fantasy e del gotico di Sapkowski
Il terzo romanzo della saga ha il grande pregio di espandere la lore del mondo fantastico in cui Geralt agisce. Finalmente l’autore inizia a metterci qualcosa di suo, anche se parte sempre da un sostrato fantasy comune a tutti i lettori.
I nani, per esempio, mantengono i connotati classici di grandi fabbri e artigiani, con una conoscenza avanzata nei settori metallurgico e siderurgico. Vivono in case di pietra nelle montagne, sono simpatici, schietti, diretti e molto scurrili e, proprio per questo, sono sempre i personaggi più divertenti. Non mancano ovviamente i nani cattivi o comunque conservatori, fedeli ad un regime di pensiero antiquato, come lo starosta di Mahakam Brouver Hoog.
Presi collettivamente quindi i nani creati da Sapkowski sono stereotipati, ma singolarmente riescono a rimanere impressi per le proprie caratteristiche personali, come nel caso di Zoltan Chivay e del suo particolare codice morale. È attraverso loro che viene introdotto il gioco della Guglia, probabilmente quello che ha ispirato il Gwent di CD Project Red. La Guglia è un elemento totalmente originale da parte di Sapkowski che riesce a caratterizzare il popolo nanesco più di qualsiasi altro discorso sulla fabbricazione delle armi. La maestria artistica dei nani, la loro superiorità nei lavori manuali e il carattere goliardico tipico di questo popolo emergono senza difficoltà e senza suonare stereotipati tramite un’affascinante descrizione dello stile con cui le carte sono realizzate e delle frasi che i nani si scambiano durante il gioco.
Lo scrittore si dimostra altrettanto abile caratterizzando il personaggio di Emiel Regis Rohellec Terzieff-Godefroy, vampiro superiore di oltre 400 anni. La figura del vampiro è stata infatti rappresentata in tutti i modi possibili ed immaginabili, tant’è che non ci stupiamo più di niente. Sapkowski però non si limita ad aprire i classici e a copia-incollare un personaggio qualsiasi nel suo libro, ma anzi definisce preliminarmente la personalità di Emiel, un uomo colto, raffinato e arguto e lascia che sia essa stessa a raccontare una nuova visione del vampiro, ricollegandosi addirittura al passato del mondo che non ci ha mai davvero illustrato.
Con la storia della sua vita, Emiel smonta tutte le teoriche classiche sul vampiro. Servendosi della logica e della psicologia spiega come ogni mito sui vampiri trovi riscontro in una paura umana: paura della morte, della decomposizione, della notte e dell’oscurità, del nulla che potrebbe esserci dopo e della sessualità. Un vero e proprio trattato sull’origine dei miti della letteratura gotica, che ne è anche omaggio.
Un altro interessante sguardo al passato, essenziale per rende più realistico il mondo, è la leggenda dello sfortunato amore tra il mago umano Cregennan e la maga elfica Lara Dorren, discendente del sangue antico. La storia, accennata a più riprese nei romanzi precedenti, ci viene qui raccontata per intero da Francesca Findabair, in una versione accettata sia dagli elfi che dagli umani.
Lara e la sua discendenza rappresentano l’unico mito degno di nota che Sapkowski crea per il suo mondo, aggiungendo tanti particolari nuovi e avvincenti, ma che non può non ricordarci l’amore burrascoso di Beren e Lúthien, a fondamento del legendarium di Tolkien.
Un’occasione completamente persa è invece quella dalla religione. Sin dalla prima raccolta di racconti, Il guardiano degli innocenti, conosciamo il tempio di Ellander e il culto della dea Melitele, un credo tradizionale che rende grazie ad una sorta di Dea Madre. Ellander è un porto franco dove lo scrittore porta spesso il lettore, senza però dire troppo a riguardo. La religione rimane quindi un argomento molto vago, lasciato in sospeso. Tra le pagine de Il battesimo del fuoco si ripresenta l’occasione per parlarne e tramite essa approfondire il mondo di The Witcher, ma questa viene schivata con cura.
Arrivati in uno dei tanti villaggi in cui il gruppo si riposa durante il viaggio, la compagnia assiste ad un processo condotto da un prete ai danni di una giovane ragazza malata di mente, additata come strega sulla base di accuse strampalate come il possesso di un gatto nero.
Il prete viene dipinto come un personaggio negativo, carico di odio, denigrato dai poteri forti e che per farsi grande a sua volta aizza la folla contro i più deboli, mosso dalla brama di potere e istigato da una folla che non sente altre ragioni se non le sue. Le prove avanzate contro la ragazza non sono altro che semplici superstizioni e teorie ispirate a quelle dell’inquisizione spagnola. Sapkowski si abbandona ancora una volta alla sicurezza degli stereotipi, con il solo risultato di una rappresentazione banale e noiosa.
La guerra: né più né meno un bordello in fiamme
Il battesimo del fuoco. The Witcher: 5
Per certi versi Il battesimo del fuoco è un romanzo di crescita e non c’è nulla che possa simboleggiarla meglio di un viaggio. La lettura prosegue tra nuovi personaggi, nuovi luoghi, nuove usanze e un desiderio crescente di conoscere tutto più a fondo. Spesso si ha l’illusione che questo cammino sia fine a sé stesso, che sia semplicemente un’altra avventura dello strigo alla ricerca di un nuovo lavoro con una strana compagnia incontrata lungo la strada. Ma è solo un’illusione e la dura realtà riemerge ogni volta che si gira pagina.
Non è necessario ritrovarsi al centro di una battaglia per accorgersi che la guerra è dappertutto e sta sconvolgendo ogni cosa. I suoi effetti sono ovunque, nei paesaggi bruciati e nei villaggi devastati, nei profughi in marcia, negli occhi di donne e bambini ridotti a spettri di fame e paura, nell’animo di uomini diventati bestie per pura sopravvivenza.
La condanna della guerra da parte di Sapkowski è sottile, ma dura. Per la maggior parte del tempo non si sa come stia proseguendo, non si sa chi tra le due fazioni sia in vantaggio e non si sa bene nemmeno per chi “tenere”. Non è mai chiaro chi ha distrutto cosa, chi ha ucciso chi e per quali motivi. L’irrazionalità dilaga tra le file di ogni esercito e pur di vincere o apparire come vincitori non si rinuncia ad ingannare e mentire. Si riesce a provare pietà solo verso i “mostri”, ingenui abitanti di un mondo che non comprendono più, e solo loro sembrano poterla provare per gli umani.
In fondo, dobbiamo dare ragione a Ranuncolo: la guerra non è fatta da eserciti ordinati e ben addestrati, di rigide formazioni e piani strategici, ma somiglia, né più né meno, ad un bordello in fiamme.
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