Barbie, recensione: come una bambola cambierà il mondo

Autore: Manuel Enrico ,

Inutile negarlo: l’arrivo della donna più poliedrica della pop culture sul grande schermo non poteva rimanere un evento fine a sé stesso Presidente, attrice, astronauta e chi più ne ha più ne metta, Barbie nella sua lunga e onorata carriera si è adattata come pochi altri simboli del mondo dei giocattoli a divenire una rappresentazione della società che cambia.

Potremmo discutere se si sia trattato di scaltro marketing della Mattel o di una voglia di offrire una guida a chi ha visto in questa donna di plastica un role model forte, un’ispirazione. Su questa base empatica è costruito Barbie, esordio sul grande schermo della bambola per eccellenza, che con il volto di Margot Robbie ci invita a seguirla in un’avventura che, curiosamente, parla più al pubblico adulto che non al tradizionale target di vendita di Barbie.

Barbie, come una bambola può cambiare il mondo (di nuovo)

Il grande inganno di Barbie è l’essersi sempre rivolta a un pubblico di bambine, con una lunga serie di prodotti d’animazione che hanno esaltato le diverse declinazioni della bambola. Una tradizione che è stata utilizzata come fumo negli occhi per l’uscita di Barbie, grazie a un'impeccabile campagna promozionale in cui si è giocato con la stereotipata visione della bionda svampita costruita sulle espressioni plastiche di Margot Robbie, pronte per essere tramutate in meme istantanei, o in cui si è parodiato un caposaldo della fantascienza come 2001: Odissea nello spazio utilizzando in modo magistrale un momento topico come l’Alba dell’Uomo.

Spiazzante, privo di punti di riferimento, il percorso verso l’arrivo di Barbie al cinema è stato animato da una crescente curiosità figlia di un’emozione che ci eravamo dimenticati da tempo: la scoperta di cosa verrà proiettato in sala.

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Reduci da anni di trailer rivelatori, campagne marketing che svelano più del dovuto e vittime di un hype iperbolico che ci spinge a fagocitare i film anziché assaporarli, anche in questo aspetto, come altre pellicole attese in questi mesi come Oppenheimer o Mission: Impossibile Dead Reackoning, Barbie cambia le regole del gioco.

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E già solo per questo, dovremmo abbracciare Greta Gerwig, Noah Baumbach e la loro squadra di lavoro.

BarbieLand è il fantastico, roseo mondo in cui vivono tutte le Barbie, i Ken e i loro amici creati nel corso degli anni dalla Mattel. Giornate perfette e uguali, scandite da feste in piscina e serate danzanti sono all’ordine del giorno, almeno fino a quando la più classica delle Barbie (Margot Robbie) non comincia a sentire che qualcosa sta cambiando. La sua eterna felicità inizia a incrinarsi quando comincia a percepire l’ansia per la morte, il suo corpo plastico perfetto mostra segni di imperfezione umana e tutta la sua idilliaca esistenza inizia a sembrare una grande menzogna.

Causa di questo risveglio è il suo legame emotivo con l’umana che ha sempre giocato con lei. Da fedele compagna di giochi, crescendo questa ragazza si è man man distaccata dall’affetto per la sua bambola perfetta. Una separazione triste, quasi violenta, le cui ripercussioni arrivano a sconvolgere l’esistenza della ‘nostra’ Barbie. Un momento di tensione che costringe Barbie a fare una scelta temeraria: viaggiare nel mondo reale. Ma questa escursione nel mondo reale potrebbe segnare la fine di BarbieLand!

Barbie non è un manifesto femminista

Diciamolo subito: Barbie ha una messa in scena divertente e incredibilmente lucida. Che si tratti di scherzare con il mondo reale, mettendone alla berlina le idiosincrasie e le ipocrisie contemporanee, o di mostrare l’universo plastico di BarbieLand, il risultato è sempre entusiasmante, tanto che possiamo sbilanciarci nel pronosticare una candidatura agli Oscar per Sarah Greenwood e Jacqueline Durra, rispettivamente per la scenografia e i costumi.

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Ogni elemento è curato nel minimo dettaglio, si gioca con un racconto visivo che ingannevolmente gioca con l’immaginario infantile legato alla bambola (scelta che ha una profonda connessione con la trama del film) per poi spostare la percezione dello spettatore a un livello più intimo, più profondo. Con intelligenza, la Gerwig cerca un contatto empatico con gli spettatori, di qualsiasi genere, per portarli all’interno di una dimensione che sia temporalmente fluida, dove ricordo e presente sono intrecciati, creando un linguaggio narrativo inclusivo e non focalizzato.

Teniamo presente questo aspetto, perché è il vero fulcro emotivo di Barbie. Se pensate che Barbie sia rivolto a un pubblico femminile, se credete che la Gerwig abbia imbastito un discorso militante sull’emancipazione femminile e la lotta al patriarcato solo per moda o per cavalcare un trend del momento, fatevi un favore: lasciate a casa i preconcetti, prendetevi la serata libera e andate in sala.

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Barbie è un divertente, ironico specchio della nostra società. La condizione di Barbie come simbolo di donna oggetto, non è sbattuta violentemente in faccia allo spettatore, ma viene costruita tramite dialoghi e una comicità volutamente pungente, in cui l’ingenuità della bambola magnificamente interpretata da Margot Robbie trova un contrappunto nelle più materiali meschine rivendicazioni dei Ken, guidati da un Ryan Gosling in stato di grazia.

 La seconda metà di Barbie è il momento dei Ken, una rivoluzione sociale al contrario che consente di segnare i limiti non soltanto del machismo tossico ma anche di una visione stereotipata di femminismo arrembante, che a volte sembra perdere di vista i veri punti su cui rivendicare una parità troppo a lungo negata.

Gosling da Ken perfetto diventa una sontuosa allegoria del maschio spaventato dalla femminilità consapevole, quasi intimorito dal dover ammettere una propria sfera emotiva non stereotipata. Non a caso alcuni dei costumi più iconici dell’universo di Barbie visti nel film arrivano dagli anni ’80, periodo in cui il dilagare degli action movie testosteronici hanno creato una visione muscolare e spesso misogine del maschio ideale.

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Gosling ironizza su questo aspetto, lavora con grande passione su questo ritratto in movimento della figura maschile culminando in un momento musical spettacolare. E anche in questo caso, scommettiamo che Just Ken, il brano di questa scena, farà sentire il suo peso alla consegna delle Statuette.

Barbie e Ken sono lo specchio del nostro mondo

Barbie non è un film schierato, ma un dialogo tra diverse posizioni, in cui si cerca un punto di contatto quanto mai necessario. Se gli uomini da Marte e le donne vengono da Venere, forse non è la Terra il mondo in cui costruire una società paritaria, ma potrebbe essere BarbieLand.

In questa parodistica guerra tra i sessi, dove non si combattono solo stereotipi stantii ma anche visioni attuali venate di cinismo e prive di senso, BarbieLand diventa un caleidoscopico e divertente laboratorio sociale, in cui dialogo e confronto sono le uniche armi veramente necessarie, capaci di far emergere una sincerità emotiva sorprendente e coinvolgente.

Dire che Barbie sia un film perfetto, sarebbe eccessivo. Non mancano momenti di ironia lievemente forzata, alcuni passaggi sono privi di coesione con il contesto generale del film, ma è innegabile che la grinta emotiva di Barbie, il modo delicato con cui vengono trattati temi di grande attualità sia così curato da rendere Barbie un film universale. Se è vero che le bambole non parlano, ironicamente in Barbie ascoltano in modo incredibile, proprio come nella vita reale, consentendoci di assaporare un magnifico monologo di Gloria (America Ferrera) o di emozionarci con una frase detta da una donna essenziale per il mito di Barbie:

Gli umani prima o poi se ne vanno. Le idee restano per sempre

Frase criptica, ma che nell’economia di Barbie vuole essere un atto di speranza. Questa è probabilmente la vera essenza di Barbie, il volerci mostrare, con ironia e con delicatezza, il mondo di oggi e darci uno spunto per riflettere su come migliorarlo. Anche con piccoli gesti quotidiani, senza strafare, ma aprendoci agli altri ed empatizzando, ricordandoci che a volte i cambiamenti, anche i più grandi, partono con piccoli passi. Come una bambola, che nella sua semplicità si fa carico delle fragilità e delle speranze di chi giocandoci immagina di poter essere un giorno qualunque cosa desideri, non dimenticandosi che alla fine esser stessi è comunque Kenough.

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