Il rombo dei motori, il vento tra i capelli e lo sguardo fisso verso l'orizzonte. Quando si parla di motociclette e di club, non si può fare a meno di muovere il proprio sguardo verso l'America, verso una nazione che ne ha di storie e "tradizioni" proprio in questo senso. La scelta di riunirsi in veri e propri gruppi lungo la strada, negli Stati Uniti, ha fatto così tanto breccia nella cultura popolare e di comune fruizione da generare delle vere e proprie leggende, un'epica dell'asfalto che ancora adesso risuona in coloro che avrebbero voluto farne parte, in qualche modo, arrivando a comprenderne le ragioni più profonde oltre le voci e i racconti delle persone. The Bikeriders, il nuovo film diretto da Jeff Nichols, disponibile al cinema dal 19 giugno 2024, si sviluppa proprio da una fascinazione morbosa come questa, regalando un racconto in cui fenomeni, fatti, testimonianze e invenzione creativa si muovono di pari passo.
Potremmo quasi arrivare a definire The Bikeriders come una vera e propria indagine, umana e storica, su un reale che rifugge le regole del comune vivere contemporaneo. Un viaggio alla ricerca di alcuni miti che hanno solcato le strade di un'America cattiva, sporca e feroce, in modi del tutto inaspettati. Le origini giornalistiche di The Bikeriders, insieme alle ragioni più creative, (la storia narrata trova le sue radici nell'omonimo fotolibro uscito nel 1968 realizzato da Danny Lyon) sono chiare fin dai primi istanti del film, applicando una distorsione dei fatti principali, qui canalizzati dalle persone che li raccontano, e da colui che sta coltivando l'interesse generale della situazione attraverso interviste e fotografie. Il distacco fra reale e raccontato è sottile, specialmente alla luce della potenziale veridicità di fondo oltre il grande schermo.
The Bikeriders: cosa succede lungo le strade?
La storia di The Bikeriders, in realtà, non è neanche una vera e propria storia, ma piuttosto una serie di testimonianze dirette ed esperienze, attraverso cui vengono raccontate prima le origini e in seguito lo sviluppo di un club di motociclisti statunitense (nel film vengono chiamati Vandals). Un ragazzo che studia fotografia al college è rimasto affascinato da loro e dal fatto che fanno parte di un fenomeno sempre più diffuso in America, decidendo di indagarne le ragioni rapportandosi direttamente con loro e passandoci del tempo insieme fra interviste e fotografie. Partendo da una struttura che ricorda il giornalismo d’indagine e d’inchiesta, The Bikeriders ci lancia direttamente nella vita dei membri più celebri di un gruppo di persone che trova piano piano la propria dimensione e fama all’interno di un contesto demografico che non riesce a comprenderne le ragioni.
A raccontare la maggior parte degli eventi principali ci pensa Kathy (Jodie Comer). È proprio al suo fianco che muoviamo i primi passi in un mondo apparentemente sregolato, difficile da inquadrare in tutte le sue sfumature e ombre. Lei è il fil rouge al quale gli spettatori si aggrappano per cercare di trovare un ordine fra la miriade di volti e storie accennate a popolare questo gruppo. Così facciamo la conoscenza di Benny (Austin Butler), Johnny (Tom Hardy), Zipco (Michael Shannon), Cal (Boyd Holbrook), e tutti gli altri.
Ponendosi come vera e propria famiglia contro un sistema che li ha praticamente messi da parte, questi motociclisti trasformano gradualmente la propria passione in qualcosa di diverso, di più profondo in cui s’incontrano sia i moti generazionali di fine anni '60, poi '70 e oltre, di pari passo a una lettura della storia americana che non tutti vorrebbero affrontare in linea diretta, tentando di nasconderne le ragioni profonde sotto un tappeto che merita di essere tolto e buttato via.
Lo sporco che nessuno vede
The Bikeriders vuole essere sia un film di testimonianza, ricostruendo un particolare e preciso fenomeno, alla ricerca delle sue ipotetiche origini americane, sia una sorta di spaccato storico-sociale su cui riflettere. Le motociclette e i vari personaggi, non a caso, sono lo specchio di una nazione che, negli anni '60 e oltre, ha commesso una serie di errori in seguito sfociati anche nel fenomeno dei club/gang come quello che vediamo nascere e crescere nel racconto sul grande schermo. Ecco che la macchina da presa di Jeff Nichols diventa sia sguardo distaccato che occhio attento verso le ragioni insite di ogni personaggio in gioco.
Non solamente il “reportage” fittizio di una realtà lontana, ma una vera e propria chance di andare oltre gli stereotipi di sorta, interfacciandosi direttamente con un mondo in cui probabilmente nessuno vorrebbe mettere piede. È solo superando i luoghi comuni che riusciamo a entrare in contatto con le persone sulle motociclette, finanche spogliandole per conoscerle oltre il rombo dirompente dei motori, i vestiti di pelle, i denti sporchi, la sporcizia sulla pelle, l’alcol e via dicendo.
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Uno dei tratti più interessanti di The Bikeriders è proprio questo. Partendo dai modelli del reportage, il film diventa e si pone come studio sia umano che sociale, andando oltre la superficie delle cose che sfilano davanti all’obiettivo della macchina da presa. Chi sono in realtà queste persone? Perché hanno deciso di riunirsi in un club dall’aria minacciosa e pericolosa? Quali sono i moti interiori che li hanno resi quello che sono oggi? Sono queste le domande fondamentali alla base di un’esperienza per immagini classica nel suo insieme, e al contempo curiosamente incisiva. Il culmine di un lungometraggio del genere arriva proprio nel momento in cui l’epica cade, lasciando il posto a una sensibilità narrativa in grado di umanizzare innanzitutto, mostrando più di un lato del materiale trattato.
Così la lente d’ingrandimento di The Bikeriders si muove continuamente, rapportandosi con l’umano specifico dei suoi protagonisti e con il contesto in cui vivono quotidianamente. A essere impressa e fotografata sul grande schermo c’è, infatti, l’America. Non quella brillante e stereotipata del sogno, ma quella problematica, povera e letteralmente abbandonata a se stessa, incapace e disinteressata nel porsi ai suoi stessi cittadini, al punto di abbandonarli e in seguito etichettarli come il male.
Il grande vuoto di una generazione persa in un orizzonte apparentemente irraggiungibile, e il racconto di una nazione che non riesce a leggere i propri limiti e problematiche. Il tutto in un viaggio che sa di convenzionale, per alcune scelte narrative, riuscendo comunque a lasciare il segno con momenti forti e indelebili, inquadrature che si fanno istantanee lontane e intangibili oggi. Di pari passo a tutto ciò troviamo un intimismo romanzato in grado di colpire, specialmente alla luce della veridicità di fondo dell’ispirazione originaria del film.
Commento
Voto di Cpop
75Pro
- Il magnetismo del cast.
- L'epica ribelle e l'analisi oltre le apparenze della stessa America.
- Alcuni momenti in termini d'inquadrature e regia.
Contro
- La prevedibilità classica della storia.
- La narrazione forse troppo distaccata che non dà modo di empatizzare troppo coi protagonisti delle vicende.
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