Coralie Fargeat sembra sapere come si costruisce un cult: strappandosi fuori dalle etichette, eccedendo i limiti, facendo le cose meglio o con più insistenza. Lo si fa aggirando i gusti per mezzo di un’autoaffermazione che coincide con una purezza di sguardo e di intenti capace di sterilizzare il giudizio. E The Substance, film presentato alla 77esima edizione del Festival di Cannes, è cult istantaneo perché ha la genuina volontà di mostrarsi in eccedenza, di essere manifestazione piena di sé stesso, di farsi organo per un body horror agonizzante a cui corregge i parametri vitali.
Di cosa parla The Substance?
Quello di Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è un nome passato dalla gloria alla soglia del dimenticatoio; la stella nella Walk of Fame che lo incornicia riluce e poi si incrina, si crepa, si insudicia: è il passare del tempo, dei pedoni e delle intemperie a comprometterla, a farlo mentre la diretta celebrata va dalla vittoria di un Oscar alla conduzione di una trasmissione di aerobica, per poi finire licenziata a causa dell’età avanzata e di un’appetibilità estetica (e sessuale) a cui un’industria malsana richiede un ricambio generazionale. La soluzione? Una sostanza capace di originare una versione più giovane e bella di sé stessa (interpretata da Margaret Qualley) e che promette di migliorarle la vita, a patto di preservare l’equilibrio.
La condanna è alle dinamiche di un intrattenimento saturnino che fagocita le proprie creazioni, che mastica e sputa, che si fa cassa di risonanza di un vorace desiderio di approvazione. Di pomi della discordia, di aspiranti più belle del reame, di spasimi per una bellezza imperitura erano già pieni miti, fiabe e romanzi gotici: The Substance non solo denuncia i meccanismi mortificanti dell’industria dello spettacolo, scava anche in una tensione atavica verso l’accettazione e il consenso che è fil rouge archetipico tra i secoli e che sfocia adesso in una cieca brama emulativa che guarda a standard inarrivabili.
L'orrore di un corpo perfetto
È un tema e un sentimento universale, attualissimo e largamente trattato, ma The Substance si serve di una tremenda lucidità espressiva nel restituire un disagio profondo, dissezionandone il cuore in una scena centrale (con una Demi Moore che si dispera e ci dispera) in cui ad essere rappresentata è tutta una società dell’effimero, di insicuri che guardano agli impavidi, di normali schiacciati da bellezze da copertina, di imperfetti che maledicono il proprio aspetto fisico fino a giungere all’autolesionismo. E allora avere la possibilità di sperimentare un corpo al massimo delle sue possibilità diventa motivo per un ripudio totale degli inestetismi, dell’accennata decadenza del proprio, diventa desiderio di specchiarsi, di aversi, di possedersi solo nella versione migliore. Una Sue che Elizabeth guarda senza mai raggiungere un’identificazione, senza ovviare a uno scollamento che permane, dando vita a uno sdoppiamento che produce uno struggimento narcisistico.
Per rendere questo sdoppiamento la regia di Coralie Fargeat si dicotomizza, mostrificando da un lato e divinizzando dall’altro, contrapponendo allo sguardo deformante quello feticizzante di un male gaze volutamente esacerbato e assurto a unico modo possibile di inquadrare la silhouette di Margaret Qualley. Qui il body horror risiede nella carne penetrata, recisa, nelle turgescenze e nella putrefazione, ma anche, paradossalmente, nella pelle levigata e lucida di Sue, in una giustezza tanto accentuata da approdare all’inquietudine più che all’erotizzazione. È un horror che procede dalla sublimazione del corpo, diventato aberrante nella sua impeccabile patinatura tanto quanto nella sua declinazione granguignolesca.
C’è poi tutta una serie di espedienti volti a scomodare lo spettatore, a metterlo alle strette, ad asfissiarlo, a procurarne un’immedesimazione che si fa indesiderata quando la macchina da presa rende la vicinanza con soggetti ripugnanti - su tutti l’Harvey di Dennis Quaid che sembra costantemente invadere il nostro spazio vitale - opprimente, quando si approda ad una claustrofobia indotta che si serve di primissimi piani e di particolari, che indugia su bocche che maciullano e ingurgitano caoticamente, che si intensifica nei suoni amplificati da asmr che provocano repulsione. È complice pure la ricerca costante di una simmetria anestetizzante, di spazi squadrati, spianati, asettici, su tutti il bagno-laboratorio svuotato di elementi e privato di colori quasi a lambire un horror vacui misto a una disturbante sovraesposizione da sala operatoria.
Eccedere per essere autentico
Sul lato sceneggiatura quello di The Substance è un incredibile lavoro di aderenza al proprio contenuto (e il Prix du scénario vinto a Cannes è meritatissimo), innanzitutto perché lo sdoppiamento permette di costruire traiettorie inverse per un personaggio duplicato nella forma ma concettualmente univoco (perché l’avvertimento “ricorda: tu sei una” diventa preoccupazione per lo spettatore più che monito per la protagonista) per cui “meglio è uguale a peggio” e all’ascesa di Sue corrisponde necessariamente la discesa vertiginosa di Elizabeth facendosi difficile decidere se gioire del successo o dolersi del contrappasso. Poi perché dallo stesso corpo del film, dalla sua struttura, prima composta, controllata, scrupolosa, si origina il suo prolungamento degenere, la sua nuova versione ipertrofica, turgida, anzi anomala, più vicina all’accrescimento tumorale.
La Sostanza insomma pare inocularsi nella stessa intelaiatura narrativa, arrivando a generare un’escrescenza strutturale che ai liquidi guarda e ai liquidi torna, che insomma fa eco all’immagine ricorrente di fluidi che colano, senza più condotti o contenitori, non da rimettere in circolo, piuttosto da ripulire (che è metafora sia dell’inservibilità, del capolinea, sia dell’eccesso, del tracimare il proprio involucro); e che si sprigiona in una sequenza finale che si spinge fino al parossismo toccando nuove vette splatter e gore.
The Substance, insomma, nel finale esagera e accarezza il b-movie, ma lo fa con un’autenticità e una sfrontatezza irresistibili, senza contenersi, senza mezzi termini, senza contemplare la possibilità di farlo con cautela, anzi credendo nella forzatura, ergendola a coefficiente virtuoso e rinnegando un damage control che lo farebbe solo meno sincero, e meno potenziale oggetto di culto.
Commento
Voto di Cpop
90Pro
- La lucidità chirurgica con cui indaga un tema ampiamente trattato
- Una regia capace di restituire visivamente lo sdoppiamento della protagonista
- Una scrittura consapevole nello switch da controllo a delirio espressivo...
Contro
- ...che potrebbe far storcere il naso a chi predilige finali meno eccessivi
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