Wolf Man, recensione: il dramma oltre il terrore, tra ombre e fragilità

Il reboot di Wolf Man rilegge un classico del cinema horror, intrecciando dramma familiare, tensione visiva e una fotografia carica di inquietudine

Autore: Nicholas Massa ,

Il mondo dell’horror più classico è abitato da alcune maschere indelebili che ne hanno fatto la storia letteraria, cinematografica e televisiva, rendendo popolari specifiche tipologie di mostri entrati a pieno diritto nell’immaginario mondiale di ogni epoca. Fra queste ci sono sicuramente i lupi mannari e tutti quei racconti che ne hanno analizzato e approfondito le ragioni più ferali, trasformando il terrore in fascinazione e attrazione, oltre le origini di queste figure. I licantropi, quindi, col tempo, sono stati così tanto affrontati dai vari narratori da diventare dei “modelli da cui partire” anche per creare altro, per andare oltre, senza però mai dimenticarne la storia più classica. È proprio tornando alle origini di queste figure che Wolf Man, il nuovo film diretto da Leigh Whannell (L’uomo invisibile) e firmato Blumhouse Productions, arriva al cinema.

Disponibile nelle sale dal 16 gennaio 2025, Wolf Man si presenta al pubblico come reboot del classico del 1941 The Wolf Man (L’uomo Lupo, da noi). Partendo da una base quasi “scolastica”, il film rielabora uno dei miti cinematografici più classici e conosciuti di sempre in un’esperienza che si nutre di tensione e dramma familiare, trasformando il tragico intimo di una famiglia qualsiasi in un’esperienza in cui l’orrore fisico e animalesco prende il sopravvento su ogni cosa, conservando però, curiosamente, una delicatezza tutta umana anche nei momenti più terribili.

Un normalissimo viaggio di famiglia

Le premesse di Wolf Man sono estremamente semplici e familiari a tutti gli appassionati del genere horror. Una famiglia nella media vive in città, nella grande metropoli. Blake (Christopher Abbott) è un papà premuroso e sempre presente per la piccola Ginger (Matilda Firth), sua figlia, anche se il matrimonio con Charlotte (Julia Garner) non sembra andare per il verso giusto: c’è come un muro, un freddo fra loro, qualcosa di difficile da spiegare. Per questo motivo, dopo la scoperta della morte del padre, Blake tenta di rimettere le cose a posto portando la sua famiglia nella fattoria in cui viveva il suo vecchio. Aria buona di montagna, panorami mozzafiato, relax e distanza dal vorticoso tran tran contemporaneo potrebbero aiutare a far tornare le cose al meglio.

Universal Pictures.
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Il viaggio, però, prende fin da subito una piega surreale e drammatica quando il camion su cui sta partendo la famiglia si imbatte in una sorta di creatura selvatica e famelica, che non si fa alcuno scrupolo ad attaccarli, costringendoli a barricarsi nella casa di famiglia e cercare di tenersi al sicuro nel bel mezzo del nulla. L’attacco ha lasciato alcuni segni indelebili che trasformeranno per sempre la tranquillità della famiglia in una situazione di pericolo ferale e indistinguibile, quanto isolata, inaspettata e, soprattutto, interna.

Tornare indietro senza cambiare troppo le cose

Come anticipato, Wolf Man è un reboot e, in quanto tale, si muove, funziona e si evolve nel progressivo avanzare degli eventi principali del racconto. Per gli appassionati, nulla di nuovo purtroppo, ma c’era da aspettarselo da un progetto del genere, che si distingue solamente per alcune trovate interessanti e sottigliezze che non vi anticiperemo. Partendo dalla violenza animalesca di fondo, il film diretto da Leigh Whannell tenta in tutti i modi di trovare una propria dimensione, imprimendo innanzitutto l’umanità dei protagonisti sul grande schermo, per poi scombussolarne gli equilibri già precari. In un processo del genere, sono proprio la scrittura e la caratterizzazione a farla da padrone, prima ancora degli elementi più orrorifici e terrificanti.

Le fragilità dei protagonisti di Wolf Man consentono fin da subito al pubblico di entrare in contatto con loro e di empatizzare con quelle imperfezioni che si manifestano immediatamente. Di pari passo, si muove una mostruosità sottocutanea che non aspetta altro che esplodere in tutta la sua bestialità. Nel mezzo, fra una struttura narrativa che rimanda inevitabilmente a tanti altri lungometraggi simili e la violenza mostruosa, si pone il dramma familiare, unico e vero protagonista della storia, che si nutre di una tragicità amarissima e senza alcuna via d’uscita.

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Ecco che Wolf Man tenta di sfruttare gli elementi più horror della sua stessa natura per lasciare qualcosa che però non arriva e non coinvolge tanto quanto vorrebbe. Il pubblico non ha il tempo necessario per affezionarsi ai personaggi principali: li comprende, ma non ne resta rapito, e questa mancanza si fa sentire durante tutto lo svolgersi degli eventi, alleggerendo fin troppo alcune trovate di scrittura.

Di base, il film non lascia molto agli spettatori, se non una profonda amarezza che però non basta a tenere in piedi una narrazione così semplice, anche se affascinante per alcune sue caratteristiche specificamente connesse al “punto di vista” e al processo di trasformazione in licantropo in sé. La prevedibilità di fondo è un altro elemento che non aiuta o valorizza Wolf Man, regalando svolte di trama facilmente leggibili fin dall’inizio e piuttosto “laterali”.

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Sviluppandosi da una costruzione narrativa da manuale, Wolf Man si avvale, però, di una regia attenta e dettagliata, che avvicina e allontana continuamente da un contesto che nessuno vorrebbe mai vivere in prima persona. Sono alcuni momenti formali a lasciare il segno, portando a letture differenti e che vanno oltre l’azione principale. Alcune inquadrature totali e panoramiche sembrano quasi riflettere sul rapporto storico e secolare fra l’uomo e la natura, cancellando l’abisso che il modernismo delle metropoli ha instaurato nel corso del tempo, allontanandoci dalle origini primordiali e animalesche della stessa umanità.

Di pari passo troviamo la fotografia spenta, soffocante e misteriosa di Stefan Duscio, elemento centrale nella tensione di un racconto fatto di ombre, suoni lontani e un continuo alternarsi di verde e nero, che soffocano giocando con la vegetazione e lo stato di abbandono di una casa e di una situazione impresse nel bel mezzo del niente, fra il terrore dell’ignoto e la magia di un orizzonte apparentemente irraggiungibile.

Commento

Voto di Cpop

65
Wolf Man, il reboot diretto da Leigh Whannell, si propone come una rilettura moderna del classico del 1941, mescolando dramma familiare e orrore primordiale. Nonostante una narrazione che rimane prevedibile e poco incisiva, il film si distingue per la sua regia attenta e per una fotografia, firmata da Stefan Duscio, capace di creare tensione attraverso un gioco di ombre e contrasti. I protagonisti, seppur fragili e umani, faticano a conquistare completamente l’empatia del pubblico, lasciando che il peso della storia si divida fra atmosfera e drammi personali. Pur non riuscendo a lasciare un segno profondo, Wolf Man esplora con delicatezza la dicotomia tra uomo e bestia, enfatizzando il rapporto tra modernità e natura, senza mai dimenticare il fascino oscuro e tragico della figura del licantropo.

Pro

  • La fotografia spenta, soffocante e misteriosa di Stefan Duscio contribuisce a creare un’atmosfera inquietante e immersiva, giocando con luci, ombre e colori.
  • Leigh Whannell offre una direzione accurata, capace di bilanciare tensione e dramma, con momenti che riflettono sul rapporto tra uomo e natura.

Contro

  • La trama segue schemi già visti e non riesce a sorprendere, rendendo alcune svolte di facilmente intuibili fin dall’inizio.
  • Nonostante le fragilità dei protagonisti, il film fatica a creare un legame emotivo forte con il pubblico, riducendo l’impatto della storia.
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