Se il detto “ambasciator non porta pena” ha resistito sino ai giorni nostri un motivo c’è. Ci sono cose che rimangono sacre in tempo di pace così come in tempo di guerra e i messaggeri rientrano decisamente in questa schiera. Per quanto possa sembrare pericoloso portare messaggi da una fazione all’altra, questo ruolo neutrale “amico di tutti e di nessuno”, è probabilmente l’unico ruolo sicuro da rivestire in un conflitto. Ma si sa, non ci sono certezze in questo mondo. Le forze in gioco sono così tante che se ne perde il conto e capiterà che almeno una di queste sia all’oscuro del suddetto proverbio. E poi Andrzej Sapkowski ama lasciare il lettore senza nessuna sicurezza, a parte quella di trovarsi con una considerevole dose di dubbi. Ecco perché ad accompagnarci dentro la narrazione del secondo romanzo della saga di The Witcher è proprio un messaggero…scoprite il suo viaggio in questa recensione de Il Tempo della Guerra.
Nuovi personaggi, vecchi problemi
Nel precedente romanzo Il sangue degli elfi tutti le fazioni sono scese in campo, mettendo in moto azioni ormai irrevocabili: uccidere la principessa Cirilla e scatenare una decisiva guerra contro Nilfgaard. Il tempo della guerra e del disprezzo preannunciato sin dai racconti è quindi giunto e non c’è più spazio per esitazioni. Eppure Sapkowski esita.
Il tempo della guerra, secondo romanzo della saga di The Witcher, può essere infatti suddiviso in due grandi blocchi, di cui il primo sembra essere un lunghissimo prologo atto a prepararci a ciò che succederà più o meno a metà del libro. La narrazione si apre con tre nuovi personaggi, delle comparse che risultano però tra le migliori nel catalogo dello scrittore polacco. Il viaggio del messaggero Aplegatt da una corte all’altra e i messaggi tra spie e regnanti che deve imparare a memoria ad ogni tappa, fanno parte di un riuscito espediente per traghettarci da un romanzo all’altro senza bisogno di sterili riassunti.
Codringher e Fenn, invece, sono gli Holmes & Watson dei Regni Settentrionali, consiglieri giuridici che offrono consulenze commisurate in base a quanto viene loro offerto, dimenticando però di consultare proprio la legge di cui si fanno portatori. Due figure tanto mitiche che solo in pochi sono convinti della loro reale esistenza. Astuti e lungimiranti, sembrano essere quasi le due personalità di un uomo diviso, di cui Codringher è la camaleontica facciata e Fenn l’inarrestabile mente laboriosa. Geralt si rivolge a loro come ultima spiaggia per scoprire chi si nasconde davvero dietro il mago Rience e per trovare qualcosa, oltre alla sola forza bruta, con cui proteggere concretamente Ciri. Nasce così l’idea di una “falsa Ciri” e si innescano delle ricerche che pongono il seme per un plot twist e una rivelazione che avremo solo più avanti.
L’ondata di nuovi personaggi che proseguirà per tutto il romanzo si arresta momentaneamente dopo la visita allo studio legale, per concedere a Geralt l’occasione di riunirsi finalmente con Yennefer e Ciri. I tre si ritrovano dopo mesi di lontananza alle porte dell’Isola di Thanedd e alla vigilia della grande assemblea dei maghi. Un’occasione mancata a tutti gli effetti. Nei confronti di Ciri, Geralt si pone come un padre che non sa più come comportarsi con la figlia ormai adolescente e che nel dubbio tace sempre e comunque.
Sul fronte romantico, invece, l’infinita storia d’amore tra Yennefer e Geralt si impantana nuovamente in un problema tecnico. Sapkowski si dimostra ancora una volta incapace di sfruttare il pieno potenziale della relazione. L’esplosione di passione, che cancella sempre ogni incomprensione tra i due, ripiomba infatti nel solito stereotipo: Yennefer è una donna indipendente, sicura di sé, ma acida e autoritaria, mentre Geralt un uomo forte e brontolone, ma che davanti all’amante spegne completamente il cervello e per amor di quiete si morde la lingua e non protesta mai. Insomma, quando il gioco si fa duro lo strigo è un vero guerriero, ma quando si tratta di sentimenti Geralt è un ragazzino alle prime armi che gioca con una spada di legno.
Una cena ad Aretuza: no pettegolezzi, no party!
Riuscite ad immaginare Batman ad una cena di supereroi? Riuscite a figurarvi lo sguardo torvo e annoiato? Lo vedete spostarsi da un tavolo ad un altro come un pesce fuor d’acqua, approcciato da tutti ma desideroso di stare solo con le sue tartine? È proprio così che dovete immaginare Geralt al ricevimento di Aretuza sull'isola, la notte prima che il Capitolo dei maghi si riunisca. La cena si svolge come una rimpatriata del liceo, dove tutti si guardano di sottecchi, senza fidarsi davvero di nessuno e scambiandosi informazioni, o meglio, pettegolezzi gli uni sugli altri.
I banchetti sono parte fondamentale di ogni medioevo che si rispetti, ma quelli dei maghi creati da Sapkowski non sono fatti di tavole imbandite e birra a fiumi, piuttosto di buone maniere da rispettare e poco cibo, spesso illusorio. Il galateo non esclude però i giochi di potere, mentre il menù prevede pettegolezzi in abbondanza e un profluvio di gelosie e antipatie gratuite. Geralt è uno dei pochi non maghi a parteciparvi, eppure gli occhi sembrano essere tutti per lui. Donne e uomini hanno almeno un motivo per voler catturare la sua attenzione e mille strategie per attirarlo nella propria tela. Convincere uno strigo a schierarsi non è un lavoro semplice e con Geralt di Rivia è addirittura impossibile, le minacce non sono che una pedina mossa senza grazia che porterà alla completa disfatta.
Sigismund Dijkstra, capo dei servizi segreti della Redania, la maga Filippa Eilhart e il membro del concilio Vilgefortz di Roggeveen tenteranno di strappare informazioni dallo strigo e di portarlo dalla propria parte, senza però alcun risultato. La danza di Vilgefortz è però uno dei momenti migliori di questo romanzo e la galleria d’arte in cui si svolge è un trattato di storia a cielo aperto.
L’importanza di farla sui nasturzi
Per quanto interessante e divertente la prima parte del romanzo prosegue in modo statico. È subito dopo la cena ad Aretuza che la storia implode su sé stessa e una serie di avvenimenti, tra rivelazioni e tradimenti, sconvolgono completamente l’ordine delle cose. Non entreremo troppo nel dettaglio degli eventi in questa recensione, ma per una volta ci ritroviamo a vivere la storyline principale in prima persona con i personaggi coinvolti, piuttosto che sentirla raccontata a posteriori come Sapkowski ama fare.
Tutto si scatena perché Geralt non vuole rovinare i nasturzi sul balcone con la pipì mattutina. La ricerca di un luogo consono dove liberarsi lo conduce letteralmente nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il destino di un mondo intero si consuma in una manciata di pagine che segnano la fine delle esitazioni da parte di Sapkowski. La corsa sfrenata di Geralt ci mostra brandelli di battaglie, soffermandosi brevemente su ognuna tanto da dare la giusta quantità di informazioni, senza strafare e rendere la descrizione eccessivamente pesante. È proprio qui però che l’azione di Geralt smette di interessarci. Siamo ormai abituati a vederlo incassare i colpi più duri, fisici e psichici, che quasi diamo per scontato che si rialzerà. Il testimone passa a Ciri, che si riconferma la vera protagonista e il personaggio meglio scritto e costruito di tutta la saga. Il corpo è ancora quello di una bambina, ma lo spirito è quello di una donna che ha vissuto troppo. Ciri affronta le sue paure e i suoi nemici con maturità, ma pur sempre con un pizzico di incoscienza e di fiducia tipica dei giovani, senza sembrare mai una miracolata o un supereroe.
Nella confusione generale degli avvenimenti di Thanned però non è semplice capire a pieno che cosa sia realmente successo. Alla fine del libro perciò Sapkowski sfrutta il suo espediente preferito, lasciando che sia Ranuncolo a rimettere insieme i pezzi e a fare i giusti collegamenti. Uno stratagemma che in quest’occasione è azzeccato e dà respiro alla narrazione invece che soffocarla.
Ritroviamo quindi Geralt che, nella solitudine di Brokilon, ha modo di pensare alle sue azioni e alle parole che negli anni gli sono state rivolte. Capisce così che tutti, a partire da Ciri sino alle persone più insospettabili, avevano ragione: non si può rimanere neutrali, i mostri da combattere son ben altri rispetto a quelli che ha cacciato tutta la vita.
Arrivati alla fine del romanzo i frutti del tempo del disprezzo si sono compiuti: odio, divisione, violenze gratuite, inganni e ratti sono tutto ciò che resta. Nel lettore persiste ancora la sensazione di un insieme di racconti accostati e non di un vero e proprio romanzo. Le storie iniziano all’improvviso e finiscono allo stesso modo in un attimo, lasciando dietro di sé degli strascichi che potrebbero anche rimanere così incompiuti. Questa volta però la sensazione è attenuata e forse siamo davvero arrivati al cuore della vicenda. Rimangono infatti dei grossi punti di domanda intorno a certi personaggi che non possono certo essere ignorati. Sapkowski inoltre ci coinvolge tanto nell’ultima linea narrativa di Geralt e Ciri, creando una forte empatia con le loro sensazioni e sentimenti che quando si arriva all’ultima pagina il dolore è troppo forte per non lanciarsi subito nella lettura del romanzo successivo.
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Voto di Cpop
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