Tornare alle origini di un mito non è mai semplice. Come dimostrato più volte da diversi franchise, da Star Trek a Star Wars, andare a scardinare la visione radicata nell’immaginario collettivo di un determinato concept è una vera e propria sfida, che spesso conduce a una spaccatura con il fandom.
Un confronto a cui non si è sottratto nemmeno una leggenda vivente come Ridley Scott, che, ben prima di dare un seguito al suo cult Blade Runner con Blade Runner 2049, aveva deciso di riscrivere le origini di un’altra sua opera particolarmente amata: Alien. E questa riscrittura ha un nome che, per gli appassionati degli xenomorfi, spesso fa storcere il naso: Prometheus.
A ben vedere, all’uscita di Alien, nel 1978, la trama del film era focalizzata sulla tensione da horror movie claustrofobico, tralasciando l’approfondimento di una connotazione ambientale che rendesse questo futuro concreto e riconoscibile. Comprensibile, considerata la natura della pellicola, che vedeva nella sci-fi non tanto un elemento essenziale della narrazione, quanto una scenografia entro cui adattare un’idea orrorifica standard.
Questo aspetto consente di notare come in questo film di Scott manchino anche alcune delle sue tematiche più care, sviluppate in seguito in altre pellicole (da Blade Runner a Prometheus), come il rapporto con il divino e la convivenza con le intelligenze artificiali. Il focus di Alien era l’ansiogena lotta per la sopravvivenza, tanto che la pellicola sarebbe potuta esser un perfetto film stand alone, ma il successo spinse la Fox a dare vita a un franchise, che a partire da Aliens – Scontro finale di James Cameron inserì gli xenomorfi in una dimensione narrativa più completa e definita. Un ritratto dettagliato che mancava però di raccontare un elemento fondamentale: l’origine degli xenomorfi.
Prometheus: le origini della vita
A partire da Alien, infatti, la presenza dei letali alieni viene data come assiomatica, esistono e non dobbiamo farci domande sulle loro origini. In realtà, Scott aveva inizialmente concepito una narrazione più articolata che affrontava anche questo tema, tanto che con i suoi due più stretti collaboratori dell’epoca, H.R. Giger e Dan O’Bannon aveva dato vita a una serie di diramazioni narrativa che spiegavano anche l’origine di un’altra figura divenuta leggenda nella continuity di Alien: lo space jokey.
Il misterioso alieno trovato all’interno del vascello extraterrestre in Alien, infatti, era rimasto nell’immaginario collettivo come una figura ammantata dal mistero, le cui origini erano state spiegate successivamente nel comparto fumettistico con Alien, serie affidata a Mark Schultz in cui si cercava di proseguire la narrazione della saga dopo gli eventi di Aliens -Scontro Finale e divenuta parte dell’Aliens Universe, un gigantesco what if…? In seguito all’uscito di ALIEN³ di Fincher.
Un’occasione che consentiva dunque a Scott di aver a disposizione numerosi interrogativi su cui andare a lavorare per gettare le fondamenta del suo universo futuro.
Affrontare il tutto come un prequel non era certo una novità per Hollywood nei primi anni 2000, dopo che Lucas aveva intrapreso questa strada per completare Star Wars con la Trilogia Prequel, avviata con La Minaccia Fantasma. Scott, intenzionato a seguire questo esempio per imporre definitiva la propria visione al suo universo narrativo, decise dunque di raccontare la genesi dello scontro tra umani e xenomorfi, partendo da un elemento estremamente affascinante: il primo contatto.
L’idea era sicuramente intrigante, ma al contempo pericolosa. Gran parte del fascino degli xenomorfi era legato, infatti, alla loro aura di insondabile mistero, una ferocia ferina scaturita dalle profondità dello spazio e che li aveva resi al contempo temibili avversari e ambito oggetto di studio, specie da parte della Weyland-Yutani. Privare gli xenomorfi di questa loro peculiarità per raccontarne le origini era un azzardo, ma va anche riconosciuto al regista che si trovava ora a gestire la propria creazione dopo decenni di sequel più o meno azzeccati, improbabili team up (come Alien Vs Predator) e una trattazione multimediale del proprio alieno decisamente prolifica.
Era quindi ora di portare un po’ di ordine all’interno della saga, e non poteva esserci, a parere di Scott, miglior modo che tornare alle origini. Prometheus nasceva proprio con questo spirito, un’idea già abbozzata da Scott nel 2002 ma che venne in seguito congelata dopo il non proprio entusiasmante risultato al botteghino di Alien Vs Predator.
In un primo momento, Scott avrebbe voluto realizzare un sequel di Alien, che si collocasse tra il primo film della saga e Aliens – Scontro Finale, con lo scopo di raccontare le origini degli xenomorfi e svelare l’identità del gigantesco pilota dell’astronave aliena, il famigerato space jockey. A dare sostengo a Scott fu anche James Cameron, che si propose di aiutare il collega inglese, almeno sino a quando la 20th Century Fox non provò a stuzzicare il regista di Titanic con l’idea di dirigere invece un crossover che mettesse in competizione i due letali alieni della major, Alien e Predator.
Cameron comprese subito la pericolosità di questa operazione e decise di abbandonare il progetto, convinto che questo scontro tra alieni avrebbe danneggiato non poco il franchise di Alien. Scelta che dimostrò la sua validità con l’insuccesso di Alien Vs Predator, e che spinse Cameron a rifiutare ulteriori collaborazioni sul franchise, che il regista considerava pericolosamente soggetto a spiacevoli ingerenze da parte della major.
Se Cameron si era allontanato da questo progetto, Scott era invece saldamente convinto delle sue idee. Tanto che la Fox nel 2009 annunciò quella che inizialmente era stato concepito come un reboot della saga, che si fermò quando Scott rifiutò la poltrona del regista, scelta invisa alla Fox che vincolò la realizzazione del film alla regia dello stesso Scott, con la sceneggiatura affidata inizialmente a John Spaihts, che aveva un compito apparentemente semplice: rispondere ai grandi interrogativi di Alien.
Non solo xenomorfi
Divenuto ufficialmente un prequel, abbandonata rapidamente l’idea del reboot, il film che sarebbe poi divenuto Prometheus doveva quindi affrontare i misteri primigeni della saga. Per Spaihts, questo significava trovare un punto di contatto tra le figure aliene al centro degli enigmi e la dimensione umana dei protagonisti, un delicato equilibrio che lo sceneggiatore identificò in modo evidente:
Tutti gli interrogativi sono fondati su personaggi alieni: l’esoscheletro da incubo e il titano dall’aspetto elefantino chiamato space jockey. Come fare a spingere qualcuno a interessarsi a simili creature? Se la loro storia fosse in qualche modo legata alla nostra, fosse intrecciata alla storia dell’umanità, se questo racconto cambiasse radicalmente il significato dell’esistenza stessa, andando a toccare concetti talmente fondanti che potrebbero cambiare la nostra stessa concezione della vita?
Basandosi su questa intuizione, Spaiths elaborò una prima bozza di una ventina di pagine che sottopose a Scott durante la fine del 2009, che trovò l’approvazione del regista. Scott stesso, stimolato da questa idea di legame tra le diverse razze, apportò alcune correzioni alla sceneggiatura di Spaiths, inviando allo sceneggiatore alcune suggestioni il giorno di Natale del 2009. Centrale in questa prima revisione fu la teoria espressa da Erich Von Däniken nel suo volume Chariots of the Gods, in cui si ipotizzava che la vita sulla terra venne creata da antichi astronauti alieni, una visione che impressionò Scott in modo evidente, tanto che la sostenne caldamente per il suo film:
Il Vaticano e la N.A.S.A. concordano sul fatto che sia quasi matematicamente impossibile che possiamo essere dove ci troviamo oggi senza avere ricevuto un piccolo aiuto durante il percorso. Ecco cosa stiamo cercando di raccontare nel nostro film, accettando alcune delle idee di Von Daniken su come siamo comparsi noi umani
Una teoria che porterà alla nascita della figura degli Ingegneri, i colossali alieni che portano la vita sulla Terra nelle prime scene del film, e che saranno centrali nella creazione degli xenomorfi. Questo passaggio della lavorazione della sceneggiatura sarà essenziale, perché diventerà il fondamento per l’intero piano narrativo di Prometheus, soprattutto quando Scott affiderà la sceneggiatura di Spaiths alla revisione finale di Damon Lindelof. Sarà proprio Lindelof a comprendere un limite apparente di Prometheus: sappiamo già dove andrà a finire
Se il finale di Prometheus fosse stato all’interno della camera in cui John Hurt trova le uova aliene, non ci sarebbe stato nulla di interessante, perché avremmo già saputo dove sarebbe terminata la storia. Le storie avvincenti sono quelle dove non sai mai dove andrai a finire. Un verso prequel dovrebbe sostanzialmente precedere gli eventi dei film originali, ma esser al contempo completamente differenti, presentare personaggi diversi, avere tematiche totalmente diverse, pur avendo luogo nello stesso mondo
Partendo da questo spunto, Lindelof impiegò cinque settimane a rielaborare la sceneggiatura di Spaiths, cercando di arricchire le tematiche tipiche della saga di Alien, come l’orrore claustrofobico e la natura action dei suoi seguiti, intrecciandole agli spunti narrativi di un’altra opera molto amata di Scott: Blade Runner.
A ben vedere, già in Aliens e Aliens – Scontro Finale il rapporto tra umani e forme di vita artificiali si era concretizzato in modo netto, basti pensare alle figure di Ash e Bishop, ma l’intuizione di Lindelof fu quella di trasformare questa convivenza introducendo elementi psicologici che fossero un’eco di quanto visto in Blade Runner:
Blade Runner alla sua uscita può non avere avuto un grande successo al botteghino, ma la gente ne parla ancora oggi perché era pregno di grandi tematiche. Scott stava pensando a temi importanti anche per Prometheus, era guidato da persone che volevano risposte alle grandi domande. Ero convinto che potessimo raggiungere questo obiettivo senza essere troppo pedanti. Nessuno vuole vedere un film con gente che fluttua nello spazio parlando del significato della vita, questo era già evidente nella sceneggiatura di Spaiths, e Scott voleva solo farlo emergere un po’ di più
Prometheus non era più un semplice prequel di Alien, ma diventava sempre di più un viaggio tra le stelle alla scoperta delle origini dell’umanità stessa. Un’identità narrativa forte che si arricchì, quindi, di tematiche di un certo spessore.
Da Milton alla mitologia greca
In un primo momento, Scott aveva intitolato il film Paradise. Il riferimento era a Il Paradiso Perduto (Paradise Lost, in originale) di Milton, opera dal forte contenuto filosofico in cui si esplora la natura umana tramite una metafora dalle tinte religiose.
Questa idea non convinceva pienamente Scott, che trovò la soluzione nel consiglio dei vertici della Fox, che spinsero il regista a guarda al mito greco di Prometeo, il dio che sfidando l’Olimpo concesse agli uomini la conoscenza del fuoco, venendo punito con un supplizio infinito. Secondo il mito, l’astio divino era dovuto al timore che con la conoscenza gli uomini potessero sfidare il potere stesso degli dei.
Lo spirito con cui la spedizione al centro di Prometheus si avventura tra le stelle sembra incarnare questo timore divino. Animati dalla necessità di scoprire l’origine della propria specie, l’equipaggio della Prometheus si mette in cerca di propri creatori, ma dietro questa apparentemente sete di conoscenza, si nasconde la più meschina voglia di ottenere l’immortalità, di riscrivere il concetto stesso di esser umano.
Forte di questa affascinante suggestione, Scott basò la figura degli Ingegneri su una sorta di modello divino. La sua richiesta al make up fu di rendere questi alieni simili all’ideale visivo dell’iconografia greca, ma anche concettualmente rese gli Ingegneri degli esseri simil divini.
Tanto che inizialmente si era pensato di fare riferimento a un Ingegnere che circa 2000 anni prima degli eventi di Prometheus era arrivato sulla Terra, per porre un freno alla razza umana, violenta e meschina, alludendo alla figura di Cristo, la cui crocefissione avrebbe dovuto assumere il senso di un atto di sfida a questa razza aliena. Una scelta forte, che Scott aveva fortemente spinto su questo dettaglio, salvo poi comprendere la sua pericolosità:
Lo avevamo pensato davvero, salvo poi pensare che posse sin troppo perfetto. Nella mia mente ho sempre visto gli Ingegneri come una sorta di divinità, creature simili a Dio, ma non altrettanto benefiche, e in fondo nemmeno così divine. Avevo sempre avuto ben chiaro che avrei realizzato un seguito, e incontrare Dio già in questo primo capitolo mi sembrava sbagliato, volevo che la Shaw potesse scegliere di non tornare indietro, ma che scegliesse di andare da dover erano venuti loro!
Nonostante questa scelta di evitare la definizione divina degli Ingegneri, Scott ha comunque dare loro il ruolo di portatori di vita, come testimoniato dall’emozionante prologo in cui uno degli alieni si sacrifica per portare la vita su un pianeta sterile. Mondo che siamo portati a identificare come la Terra, ma che Scott stesso ha voluto avvolgere in un alone di mistero:
La sequenza iniziale della creazione è un dono, mostra l’importanza di queste creature. Non per forza siamo sulla Terra, potremmo essere ovunque, la rilevanza è nel gesto, il portare la vita nell’universo scegliendo di morire per questo scopo.
Eppure, il concetto di fede è centrale in Prometheus, non solo per le ovvie citazioni e rimandi, ma anche per la conclusione stessa della storia, che vede i grandi interrogativi rimasti ancora senza risposta. Non è un caso che l’unico personaggio con un evidente legame religioso, Shaw, sia la sola sopravvissuta, capace di accettare l’origine scientifica dell’umanità, sentendosi quasi sollevata, ma ancora in grado di credere in un’entità superiore.
La sua partenza nel finale di Prometheus per proseguire questa ricerca della verità primigenia è al contempo un monumento alla curiosità umana, base della scienza, e un’affermazione di fede, in un raro esempio di coesistenza di due elementi così antitetici.
Una missione animata dalla ricerca di risposte ai grandi interrogativi dell’esistenza, legati alle nostre origini. Prometheus fonda la propria dinamica sul concetto di creazione, sin dalle prime immagini, con il sacrificio dell’Ingegnere per la creazione della razza umana, proseguendo nel corso del film con un ciclo di forzata procreazione che, in una chiusura del cerchio, ci riporta agli Ingegneri stessi, dopo una serie di fecondazioni aliene che ha coinvolto sia la razza umana che quella dei loro creatori, un meccanismo messo in moto, ironicamente, dall’unica forma di vita non biologica: l’androide David.
L’androide ottimamente interpretato da Michael Fassbender incarna nuovamente l’elemento tecnologico di rottura all’interno delle trame della saga di Alien. Ash aveva un malfunzionamento durante la sua routine segreta per recuperare le uove aliene, Bishop aveva mostrato una morbosa curiosità durante la sua autopsia ai facehugger in Aliens – Scontro Finale, mostrando come i sintetici siano sempre inquietantemente legati al concetto di vita, intesa come nascita e prosecuzione della specie. Difficile non notare come questo cruccio interiore dei sintetici ricordi la disperata ricerca di ‘più vita’ di Roy Batty e sodali in Blade Runner, anche se in Prometheus viene affrontata in modo diverso.
Se in Blade Runner lo struggimento dei sintetici era per la loro consapevolezza di una morte imminente, unita alla conoscenza delle proprie origini e alla sua accettazione, per David in Prometheus questa curiosità si spinge nella direzione del perché esistere, in una visione che pare rifuggere l’assioma cartesiano.
David è a bordo di una nave piena di esseri umani che cercano di comprendere il perché e le origini della propria esistenza, e sembra non capire inizialmente questa loro necessità. Gli eventi del film saranno per lui di utilità per avvicinarsi a questa curiosità, al punto che sceglierà infine di seguire la Shaw nel suo viaggio tra le stelle.
Una ricchezza di sfumatura, ben inserite all’interno della trama di Prometheus, che Lindelof spiegò molto chiaramente nel presentare quelle che erano le mire narrative del film:
Stai esplorando il futuro, lontano dalla Terra domandandoci come saranno le persone. L’esplorazione spaziale nel futuro si evolverà in una visione che non sarà legata solamente all’idea di andare nello spazio e trovare nuovi mondi da colonizzare, ma avrà anche l’innata idea che più ci addentriamo nelle profondità del cosmo, più impareremo su noi stessi. E i personaggi di questo film sono animati da un interrogativo preciso: quali sono le nostre origini?
Il futuro di Prometheus
Pur trattandosi di un prequel di Alien, Prometheus aveva trovato una propria identità, una crasi tra la ricerca di risposte agli interrogativi emersi nella pellicola inaugurale della saga e la necessità di avviare nuove trame. Una ricerca di personalità che si estese anche alla definizione visiva, alla tecnologia dell’umanità futura, che non trovava solamente in David una degna raffigurazione.
Basti pensare che Arthur Max, incaricato di realizzare i set dedicati alla Prometheus e alla nave dell’Ingegnere, passò tempo a studiare le teorie e i progetti di NASA e ESA in merito al design di astronavi colonizzatrici, acquisendo competenze e spunti che inserì all’interno del proprio lavoro. La cura maniacale nel ritrarre una tecnologica credibile diede vita anche alle attrezzature degli astronauti, una sintesi tra funzionalità e ipotizzabile evoluzione tecnologica.
Scott puntò, ad esempio, a realizzare elmi che fossero totalmente trasparenti, convinto che per il 2083 la tecnologia consentisse di realizzare materiali trasparenti ad alta resistenza, con cui realizzare un casco che consentisse una visuale aperta, contrariamente a quella ristretta degli attuali cosmonauti.
Ad essere interessante in questo processo di genesi del mondo di Prometheus è anche l’idea di recupero di precedenti intuizioni mai utilizzate nella saga. Già ai tempi della prima sceneggiatura di Alien, Scott e O’Bannon avevano ideato una sorta di proto-cultura aliena, comprensiva di rituali per la fecondazione degli xenomorfi, arrivando a realizzare uno stile architettonico, affidando all’inquietante estro artistico di H.R. Giger. Un’operazione quasi di recupero, considerato che l’artista svizzero aveva riadattato il concept tecno-organico sviluppato ai tempi della sua collaborazione con quell’incredibile think thank artistico capitanato da Alejandro Jodorowsly assemblato per realizzare la prima, faraonica e mai realizzata trasposizione di Dune.
Quello che avrebbe dovuto esser Castello Harkonnen era divenuto, ai tempi di Alien, un tempio alieno, ma quando la parte di definizione sociale venne radicalmente tagliata, in favore di una narrazione più claustrofobica e dal tono differente, le idee di Giger finirono in naftalina, venendo solo in seguito recuperate da Scott per la realizzazione di Prometheus, diventando la base della cultura degli Ingegneri.
L’inizio di una nuova era per Alien
Pur essendo sin dalla sua genesi inserito all’interno della saga di Alien, Prometheus ha una particolarità: non viene mai citato Alien, né nella sinossi né all’interno della narrazione. Il mondo è inequivocabilmente quello reso celebre da Ripley, come dimostrato dalla presenza di riferimenti evidenti, ma è interessante notare come si sia cercato di seguire la ricerca di un’identità indipendente per questo film rispetto agli assodati punti fermi della saga. Il pensiero di Lindelof in tal senso era chiaro, come abbiamo visto, ma è altrettanto importante ricordare che, nelle prime fasi della lavorazione, era ancora in dubbio la natura della pellicola: reboot o prequel?
Una confusione che venne infine risolta con un ritorno alle origini, che voleva anche esser un nuovo inizio per la saga, piagata dalla presenza di capitoli poco apprezzati, come ALIEN³ o Alien: La Clonazione. Lo stesso Scott aveva un’idea bene precisa sulla rotta da seguire:
Alien è l’ovvio punto di partenza di questo universo, ma dal processo creativo è nata una mitologia immane e nuova, un universo in cui si svolge questa avventura mai raccontata. Gli appassionati troveranno filamenti del DNA di Alien, ma le tematiche che affronteremo in questo film sono specifiche, importanti e divisive. Non potrei esser più soddisfatto nell’avere identificato il racconto che cercavo, potendo tornare infine a un genere che sento particolarmente caro
Prometheus, a ben vedere, non è un film stand alone, contrariamente ad Alien. È evidente che la maggior ricchezza di suggestioni infuse in questo film da Scott, e probabilmente in maggior modo da Lindelof nella sua riscrittura della trama, fossero mirate alla realizzazione di un primo capitolo di una narrazione più ampia. Una sorta di compromesso tra creatore e spettatore, con una risposta ad alcuni dubbi legati al film capostipite che assume i toni di un nuovo interrogativo che ci proietta su una rotta differente rispetto a quanto vissuto precedentemente.
Una concezione che si è scontrata con il fandom di Alien, che proprio a partire da Prometheus ha criticato il ritorno di Scott all’interno della saga. Non è certo la prima volta che un prequel trova ostinate critiche da parte dei fan di una serie, basterebbe citare la poco calorosa accoglienza ottenuta da La Minaccia Fantasma presso gli appassionati di Star Wars, ma va riconosciuto che le pesanti critiche mosse verso Prometheus sono, in alcuni casi, nate più per un senso di leso possesso da parte del fandom che non per una criticità intrinseca del film.
Trattandosi del primo passo di un più ampio percorso, ambientato nel già noto universo di Alien, Prometheus aveva il compito di ricostruire un legame tra i fan della saga e la sua nuova, differente dimensione, animata da una diversa concezione di sci-fi rispetto ai suoi più apprezzati predecessori. Alien aveva più tratti da horror movie, mentre Aliens - Scontro Finale era stimolato da una visione della fantascienza bellica, con Prometheus Scott aveva intenzione di creare una narrazione più emotiva e dai tratti filosofici, totalmente assente nella saga sino a quel momento.
Prometheus, come l’omonimo protagonista del mito greco, porta all’interno della saga una nuova scintilla, la conoscenza, sia come nozione posseduta che come ricerca della stessa, dando uno slancio differente alla saga. Il film di Scott risente della sindrome da primo capitolo, il creare un mondo approfondito in seguito, aggravato dalla presunta familiarità dei fan con questa ambientazione.
Un senso di nostalgico affetto deluso dalle radicali trasformazioni del mondo ritratto da Scott, che non ha nascosto la sua volontà di gettare le basi della cronologia della sua saga, dando vita a un proprio universo. Un contesto narrativo che, secondo alcune teorie, sarebbe condiviso con l’altra sua grande creazione, Blade Runner, grazie a un riferimento testuale nei contenuti extra dell’edizione home video, in cui veniva raccontato come l’idea di Weyland di realizzare androidi fosse nata assieme a una sua vecchia conoscenza, che in seguito dalla città degli angeli (soprannome di Los Angeles), dove viveva in una gigantesca piramide, avrebbe realizzato questi simulacri umani. Difficile non ripensare a Eldon Tyrrell e alla sua faraonica reggia vista nel primo Blade Runner.
Al netto di queste speculazioni, pare comunque eccessivo l’accanimento con cui parte del fandom di Alien si è scagliato contro Prometheus, un’avversione che parrebbe trovare gran parte del suo fondamento nel capitolo seguente, Covenant.
Iscriviti al nostro canale Telegram e rimani aggiornato!