Blade Runner: replicanti, umani e la dura sfida di vivere

Blade Runner: storia di un cult del film di fantascienza, sopravvissuto alla maledizione dei flop per divenire una delle pellicole più amate della storia

Immagine di Blade Runner: replicanti, umani e la dura sfida di vivere
Autore: Manuel Enrico ,

…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia…

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Poche paroli sono entrate nella storia del cinema come quelle sussurrate da un morente Roy Batty nel celebre monologo di Blade Runner, la pellicola di fantascienza datata 1982 diretta da Ridley Scott. Parlare di Blade Runner significa addentrarsi nell'empireo del grande schermo, trattandosi di un film che ha segnato un’epoca e pesantemente influenzato anche l’immaginario fantascientifico successivo. Per farlo, però, dobbiamo partire dalla prima incarnazione di questo universo: Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Ship), romanzo di Philip K. Dick.

Solitamente si tende a dimenticare quanto il lisergico e inquietante corpus narrativo di Dick abbia influenzato il mondo dell'entertainment, che si tratti di avventure sul grande schermo o di serie, come dimostrato da L'uomo nell'Alto Castello di . L'approccio di Dick è sempre stato caratterizzato da una percezione acida della società, oppressiva nei modi e nei metodi, portandolo a essere un autore caustico e considerato uno dei maggiori ispiratori della successiva letteratura cyberpunk per queste sue visioni. 

Blade Runner, da flop a cult del cinema di fantascienza

Da pecore elettriche al grande schermo

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Do Androids Dream of Electric Sheep? nacque durante la lavorazione di un altro romanzo di Dick, La svastica sul sole (The Man in the High Castle). Correva l’anno 1962 e Dick stava cercando del materiale all’interno della collezione di documenti della Gestapo conservati presso l’università californiana di Berkley, occasione che gli consentì di leggere testimonianze delle atrocità naziste, portandolo a chiedersi come delle persone potessero arrivare a concepire simili bassezze verso i propri simili. Da questo interrogativo, Dick iniziò a sviluppare il cuore del suo Cacciatore di androidi, titolo con cui fu inizialmente pubblicato in Italia il suo romanzo, che arrivò nelle librerie americane nel 1968.

Come molta della produzione dello scrittore americano, anche Il cacciatore di androidi venne subito considerato come un’idea appetibile per il cinema, tanto che tra gli interessati a portarlo in sala c’era un certo Martin Scorse, che alla fine non riuscì a dar vita al suo intento.

Il primo ad avvicinarsi ad una realizzazione del film ispirato all’opera di Dick fu il produttore Herb Jaffe, che acquistò i diritti del racconto di Dick ed incaricò il figlio Robert di stilare una prima sceneggiatura, che non venne particolarmente apprezzato da Dick:

La sceneggiatura di Jaffe era scritta incredibilmente male. Robert venne in aereo sino a Santa Ana per spiegarmi la sua idea, ma la prima cosa che gli chiesi quando scede dall’aereo fu ‘Devo menarti qui all’aeroporto o aspettiamo di arrivare a casa mia?’

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Come prevedibile da questa reazione di Dick, il progetto si arrestò bruscamente.

Si dovette attendere la fine degli anni 70 per mettere in piedi un nuovo tentativo di portare il racconto di Dick al cinema. Nel 1977, Hampton Francher realizzò una sceneggiatura pensata per una produzione low budget, Mechanismo, in cui a farla da padrone erano i dialoghi, mentre la gran parte delle scene erano ambientate in interni. Questa versione, ovviamente, non convinse Dick, che trovava piatta la produzione e suggerì di inserire una voce narrante; il progetto però non era naufragato, ma trovò il modo di arrivare alle mayor hollywoodiane, che videro del potenziale in questa idea, e identificarono anche un regista ideale: Ridley Scott.

A preoccupare la Warner fu l’opinione non molta lusinghiera espressa da Dick sull’Alien di Scott, al punto che si decise di coinvolgere maggiormente lo scrittore, in modo da avere un opinione preliminare che aiutasse a mettere il progetto sui giusti binari.

All’epoca, Scott fu costretto a rifiutare, perché impegnato nella produzione di Dune, film ispirato al celebre romanzo di Frank Herbert. Come la storia insegna, portare Dune al cinema fu una vera odissea, come ha scoperto suo malgrado Jodorowsky, e anche questa nuova produzione stava faticando a trovare una realizzazione. Lungaggini, problemi vari e una situazione non certo ideale, a cui si unì anche la morte del fratello, spinsero Scott a lasciare la poltrona della regia a David Lynch. E una volta libero, Scott era nuovamente disponibile per dirigere quello che sarebbe divenuto Blade Runner.

Quando Scott si sedette sulla sedia del regista, nel febbraio del 1982, dovette cominciare a fare delle scelte, la principale delle quali fu il titolo. Il titolo provvisorio di lavorazione era passato da Mechanismo a Dangerous Days, ma Scott ebbe un elenco di potenziali titoli tra cui figuravano proposte come Gotham City o Android.

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Non convito da questi titoli, Scott si ricordò di avere acquistato uno script dello sceneggiatore William Burroughs, intitolato Blade Runner (a movie)

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L’ispirazione era derivata dal racconto Medicorriere (Blade Runner, in originale), dello scrittore Alan E. Nourse. Nel racconto di Nourse, i blade runner erano degli spacciatori di materiale medico, in particolari strumenti come i bisturi, divenuti una merce particolarmente rara. L’idea rielaborata da Burroughs era parsa interessante a Scott, che ne aveva acquistato i diritti, salvo poi dimenticarsi di averli. Nel momento in cui si rese necessario trovare un titolo convincente per il nuovo film, Scott decise di ‘riciclare’ il titolo di questo progetto mai realizzato e dargli una seconda possibilità.

Dei diversi titoli immaginati, solo uno in seguito rimase legato a Blade Runner, Dangerous Days, che anni dopo venne utilizzato come titolo per un documentario sulla realizzazione di questo capolavoro del cinema.

La visione di Scott

La sceneggiatura di Hampton Fancher, partendo dall’idea di Dick, si spingeva ad affrontare in particolare l’aspetto ecologista dell’opera originale. A Scott questa linea narrativa non interessava molto, e decise di mettere immediatamente mano alla sceneggiatura per avvicinarla maggiormente alla propria visione.

Il primo passo fu cercare un nuovo termine che sostituisse androide, considerato da Scott decisamente abusato nella fantascienza del periodo. Il regista mise subito in chiaro che, nonostante androide fosse presente nell’originale di Dick, non lo avrebbe usato, dando vita alla ricerca di un nuovo vocabolo da impiegare. La situazione venne risolta in maniera casuale da David Webb Peoples, incaricato di riscrivere la sceneggiatura di Fancher. In quel periodo, la figlia di Peebles studiava microbiologia, e spiegò al padre il concetto di replicazione, un procedimento biologico in cui una cellula ricrea una copia di sé stessa. Da questa ispirazione, in un secondo momento nacque il termine di replicante, anche se non è mai stato spiegato se sia una parola creata da Peoples o da Scott.

Idea che incontrò, assieme al resto dell’intelaiatura narrativa di Blade Runner, anche l’approvazione di Dick, che ebbe modo di vedere un assaggio di venti minuti di girato, poco prima della sua morte. A convincere lo scrittore fu la sensazione di aver visto su schermo un lavoro che cogliesse la sua idea originaria. Risultato incredibile, pensando che né Scott né Peoples avessero mai letto Do Androids Dream of Electric Eheep?

Nel ricreare l’ambiente in cui si sarebbero mossi i protagonisti, Scott aveva in mente un’immagine precisa: The Long Tomorrow

Storia breve a fumetti, The Long Tomorrow era scaturita da una fucina artistica assemblata da Alejandro Jodorowsky quando aveva deciso di girare un film basato su Dune, occasione in cui l’incontro tra Dan O’Bannon e il celebre disegnatore Moebius portò alla nascita di questo piccolo gioiello del fumetto. Scott decise che l’immaginario dell’artista francese era ciò che serviva al suo Blade Runner, e decise di contattarlo.

Inizialmente, Moebius accettò l’offerta di Scott, realizzando anche dei bozzetti per alcune ambientazioni del film, ma fu in seguito costretto ad abbandonare la produzione a causa di un precedente impegno preso per il film d’animazione Les Maitres du temps. Alcuni di questi schizzi, però, vennero compresi all’interno di un’edizione per il mercato home video, legata all’uscita della versione Final Cut.

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A risolvere la situazione fu un nome divenuto leggenda: Syd Mead. Assunto inizialmente dalla produzione come designer dei veicoli e di alcuni aspetti minori, Mead aveva presentato dei bozzetti particolarmente dettagliati, in cui erano spesso presenti anche sfondi urbani e ambientazioni di contesto. Quando Scott incassò l’abbandono di Moebius, si ricordò dell’ottima impressione avuta del lavoro di Mead, e gli affidò anche il compito di realizzare il mondo di Blade Runner.

Parte integrante del mondo di Blade Runner è anche la lingua parlata nella Los Angeles futura. Autore del cityspeak fu l’attore Edward James Olmos, interprete di Gaff. L’idea di partenza di Olmos era che una città così cosmopolita contemplasse una commistione di differenti lingue, dando vita ad una sorta di parlata tipica della città, un dialetto locale se vogliamo. Per idearlo, Olmos si affidò al suo background personale, unendolo ad una matrice linguistica presa dall’ungherese.

Un grosso problema fu trovare il protagonista per Blade Runner. Nella sceneggiatura di Fancher i dialoghi erano stati scritti pensando a Robert Mitchum come interprete di Deckard, ma quando Scott prese in mano il progetto aveva in mente un attore completamente diverso: Dustin Hoffman. Mesi di contrattazioni, discussioni e tentativi di trovare un accordo si risolsero in un nulla di fatto quanto Hoffman si tirò indietro.

Scott iniziò a pensare a sostituti eccellenti (Sean Connery, Jack Nicholson, Clint Eastwood e Al Pacino). In quel periodo, però, c’era un giovane attore che stava emergendo grazie a ruoli molto popolari in pellicole come Star Wars e Indiana Jones, tale Harrison Ford. Raccomandato da Steven Spielberg, Ford suscitò l’interesse di Scott, complice la curiosità dell’attore per il progetto Blade Runner e la sua voglia di cimentarsi in un ruolo drammatico.

Nonostante durante i provini del resto del cast il ruolo di Deckard fosse stato interpretato da Morgan Paull, alla fine fu Ford a ottenere la parte. A Paull venne offerto di interpretare il ruolo di un altro cacciatore, Holden, il bounty hunter di lavori in pelle freddato ad inizio film da Leon.

Molto più facile fu trovare il volto del cattivo, Roy Batty. Scott identificò subito il suo villain nelle fattezze dell’olandese Rutger Hauer, che scritturò senza provino, convinto dalle sue performance in Soldato d’orange e Fiore di carne. A sostenere l’olandese fu anche Dick, che lo identificò subito come l’immagine perfetta del suo cattivo:

E’ il perfetto Roy Batty. Freddo, ariano, senza difetti

Joanna Cassidy ottenne la parte di Zhora perché fu l’unica a sentirsi a suo agio nel recitare con un pitone intorno al collo. Non a caso il rettile che le fa compagnia nel suo camerino era il suo animale domestico, Darling.

La dura strada per costruire un mito

Durante la lavorazione di Blade Runner, la produzione dovette scontrarsi con un problema non da poco: il carattere di Scott. Il suo temperamento non proprio amichevole lo portò a scontrarsi spesso con la troupe, dando vita ad una lavorazione tesa. In questa atmosfera gli addetti ai lavori di Blade Runner iniziarono a manifestare il proprio scontento ribattezzando la pellicola Blood Runner. La situazione peggiorò quando il regista in un’intervista ebbe a lamentarsi del modo in cui lavoravano le maestranze americane, nettamente inferiori ai colleghi britannici che erano soliti rispondere alle sue indicazioni con un rispettoso ‘Yes, Guv’nor’.

La dichiarazione non fu ovviamente bene accolta dalla troupe, che accolse il regista sul set sfoggiando delle magliette con scritto ‘Yes Guv’nor my ass’, a cui il regista rispose arrivando sul set con un cappello da ammiraglio con la scritta Gouv ed indossando una T-shirt con il motto ‘Xenophobia sucks’. Questo gesto ironico del regista fu considerato un tentativo di distensione, che probabilmente salvò la produzione

Blade Runner è legato anche al mito costruito intorno ad alcune scene particolarmente intense, tra cui il monologo finale di Roy Batty, entrato di diritto nella storia del cinema.

Peoples aveva ideato un monologo per questa uscita di scena, ma nel leggere il copione Hauer lo trovò poco intenso, non adatto alla drammaticità del momento. Al momento di girare la scena, l’attore olandese decise di improvvisare, recitando solo pochi passaggi del pezzo originale di Peoples e aggiungendo due frasi

E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire

La troupe fu sconvolta dall’intensità della scena e questa improvvisazione di Hauer divenne storia del cinema. Un momento di cinema che sarebbe potuto esser ancora più intenso se l’altra idea di Hauer, utilizzare una colomba in questo attimo emotivamente travolgente, avesse avuto l’esito sperato, ma il pennuto non riuscì a volare a causa del piumaggio zuppo d’acqua. Niente volo poetico, ma solo un poco dignitoso zampettio.

Anche Daryl Hannah, interprete di Prys, volle apportare dei cambiamenti al proprio personaggio. Nella storia, Prys è un modello di Nexus da compagnia, attivata ironicamente il giorno di san Valentino del 2016. Nell’idea dell’attrice era però un peccato non creare un momento di lotta, con un tocco acrobatico, tra Prys e Deckard. Scott si lasciò convincere e assunse una ginnasta, a cui fece ripetere così tante volte la scena da causarle delle lesioni che le impedirono di registrare la scena definitiva. Disperato, Scott trovò come unico rimpiazzo un ginnasta uomo, cosa che lo costrinse poi a lavorare su illuminazione e montaggio per coprire questo piccolo dettaglio.

Improvvisazione meno epica fu quella improvvisata da Harrison Ford, su richiesta di Scott. Nella scena in cui Deckard ferma Rachel prima che lasci il suo appartamento, il volto sorpreso di Sean Young sembra così naturale perché l’attrice non si aspettava questo slancio, deciso da Scott poco prima della ripresa. Peccato che oltre allo stupore l’attrice abbia provato anche un dolore non indifferente, dato che Ford mise troppa forza nel gesto e le fece sbattere la testa violentemente al muro. Si rischiò l’incidente diplomatico, minacce di abbandonare il set, scuse e spiegazioni varie, e infine tutto si risolse.

Deckard: Replicante o no?

Per anni si è discusso del grande mistero di Blade Runner: Deckard è o no un replicante? Nemmeno l’uscita di Blade Runner 2049 ha posto fine a questa eterna discussione tra gli appassionati del film, anche se esiste una linea ufficiale dettata da Scott: Deckard è un replicante.

Per capirlo basterebbe guardare con attenzione Blade Runner, che nasconde un preciso indizio che identifica i replicanti: gli occhi rossi. In alcune scene, infatti, i replicanti appaiono con un distintivo riflesso rosso nell’iride, cosa che accade anche per il personaggio di Ford.

La scelta di identificare Deckard con uno dei replicanti arrivati dalla colonia extramondo come citato all’inizio del film era da sempre nelle idee di Scott, che dovette però scontrarsi con il parere negativo di Ford e di Hauer, che non ritennero intelligente questa idea del regista, quasi volesse sminuire il contrasto emotivo tra replicanti e umani. Dopo qualche discussione, il regista promise di ascoltare la loro opinione, salvo poi fare di testa sua ed ecco l’immagine in cui si vede chiaramente che Deckard è un replicante.

Quando ebbe modo di rimettere mano al suo lavoro in occasione della Director’s Cut, Scott inserì anche l’elemento del sogno dell’unicorno, che unito all’origami lasciato da Gaff lascia intendere come questo sogno di Deckard sia in realtà frutto di un impianto mnemonico inserito nella sua mente dalla Tyrell.

Blade Runner-verso

Siamo sicuri che non ci sia un collegamento tra il mondo di Blade Runner e quello di un altro grande film di Scott, Alien? Il tutto nasce come inside joke, visto che negli schermi degli spinner compare uno schermo su cui compare una grafica vista proprio in Alien, su un computer della Nostromo.

A dare però maggior sostanza a questa idea, è un contenuto extra della versione home video di Prometheus, il film con cui Scott ha ripreso in mano le sorti del franchise di Alien. In uno di questi extra, infatti, compare una mail scritta da Peter Weyland, fondatore della Weyland Corporation, in cui il magnate fa riferimento ad una sua vecchia conoscenza:

Un mentore e concorrente da lungo tempo scomparso una volta mi disse che era giunto il momento i mettere via i miei sogni infantili e abbandonare i miei ‘giocattoli’. Mi incoraggiò ad anadare a lavorare con lui, perché insieme avremmo potuto dominare il mondo ed essere i nuovi Dei. Ed era così che guidava la sua corporazione, come un Dio in cima alla sua piramide da cui dominava la città degli angeli. Ovviamente, lui cercò di replicare i poteri della creazione in modo solito, semplicemente copiando Dio

Difficile non vedere in questa mail di Weyland un riferimento alla figura di Eldon Tyrell, il fondatore della Tyrell Corporation, la produttrice dei Replicanti.

Ma anche un film non legato alla produzione di Scott sembra far parte del Runner-verso. Soldier, diretto da Paul W.S. Anderson e scritto da Webb Peoples. Lo sceneggiatore iniziò a scrivere la storia di questo film mentre lavorava a Blade Runner e creò dei legami tra le due pellicole. In Soldier, compaiono diversi riferimenti visivi a Blade Runner, ma sono i riferimenti espliciti al film di Scott, come il tatuaggio del personaggio di Kurt Russell, in cui, tra gli scenari di battaglia citati, figurano i Cancelli di Tanhauser, a cui faceva riferimento anche Roy Batty nel suo celebre monologo.

In Soldier venne raccontato come una compagnia stia cercando di sostituire dei militari con delle loro copie sintetiche. Ambientato nel 2036, Soldier condivide l’anno con il corto 2036: Nexus Dawn, ambientato tra Blade Runner e Blade Runner 2049, in cui viene raccontato che un nuovo modello di replicanti, i Nexus 9, vengono creati come soldati da mandare al fronte al posto degli umani.

Tutte le versioni di Blade Runner

Blade Runner è probabilmente il film con più versioni esistenti al mondo. Sembra che esistano ben sette versioni del film di Scott, a cominciare dalla Workprint Version, la versione di prova mostrata nel 1982 come screening di test, che non fu accolta bene, portando alla scelta di inserire un lieto fine e la voce narrante fuori campo (odiata da Harrison Ford).

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La Domestic Version uscita nelle sale americane nel giugno del 1982 era il frutto di questi cambiamenti apportati alla Workprint Version. Per il resto del mondo, invece, venne presentato la International Version, in cui sono inserite anche scene più dure tagliate nella pellicola mostrata nei cinema statunitensi, come la scena in cui Batty cava gli occhi a Tyrrell o il momento in cui si conficca il chiodo nella mano.

Entrambe queste versioni però non erano in linea con l’originale di Scott, che si rammaricò sempre di non esser riuscito a portare la sua visione completa al cinema. L’occasione arrivò nel 1989, quando in un festival cinematografico venne proiettata una versione mai vista di Blade Runner, a causa dell’invio di una pizza errata per la proiezione.

Cogliendo al volo questa opportunità, Scott decise di rimettere mani al girato per presentalo nella versione che lui avrebbe sempre desiderato portare al cinema. Nel 1992 uscì la Director’s Cut, in cui era stato rimossa la voce fuori campo, la scena del lieto fine con la fuga di Rachel e Deckard e fu inserita la scena del sogno dell’unicorno di Deckard. Per Scott questa scena era fondamentale, perché insinuava il dubbio che Deckard non fosse umano:

Avevo girato una piccola scena in Inghilterra durante la post-produzione di Blade Runner, in cui un unicorno corre nei boschi. Questa scena era un chiaro segno che a Deckard fosse stata impiantato questo ricordo dalla Tyrell, insinuando fosse un replicante. Ma fui costretto a rimuoverla. L’occasione di realizzare una Director’s Cut mi parve l’occasione ideale per inserirla, insieme ad altre scene precedentemente tagliate

Nella rielaborazione del girato, però, venne rimosso anche il riferimento ad una quinta replicante, Mary. Presente sin dalla prima sceneggiatura, Mary era stata conservata in diverse fasi della lavorazione del film, tanto da avere anche un’interprete designata, Stacey Nelkin, che aveva ricevuto la parte dopo esser stata scartata come Rachel.

Peccato che uno sciopero degli sceneggiatori di Hollywood complicò i lavori di Blade Runner, costringendo la produzione a tagliare definitivamente alcune scene che non vennero nemmeno girate, comprese quelle con Mary. Nelle precedenti versioni, però, rimaneva sempre il riferimento alla quinta replicante, citata quando viene spiegata la fuga dei replicanti attraverso il campo elettrico.

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L’ultima versione di Blade Runner, la Final’s Cut, data 2007, viene considerata la versione definitiva, dato che a Scott fu data piena libertà. Il regista apportò alcune correzioni minori, lavorando principalmente su una migliore definizione di immagine e sonoro.

La maledizione di Blade Runner

Oggi consideriamo Blade Runner un capolavoro, ma all’uscita in sala fu un disastro. Il produttore Alan Ladd aveva deciso di pianificare scaramanticamente la release di Blade Runner il 25 giugno, visto che considerava il 25 il suo giorno fortunato, dopo l’ottimo risultato di Star Wars (25 maggio 1977) e Alien (25 maggio 1979).

Peccato che nel 1982 in quel periodo uscirono altre pellicole di fantascienza, come La Cosa, Star Trek II: L’ira di Khan, e soprattutto E.T. . Il pubblico non venne solamente travolta dalla fantascienza, ma il concetto stesso di sci-fi cinematografica stava virando verso una visione più avventurosa, divertente e tranquilla, tanto che E.T. divenne un vero e proprio film cult.

L’incasso di Blade Runner in questa sua prima uscita si fermò a 27.5 milioni di dollari, a fronte di un budget stimato di 28 milioni. Furono poi le successive uscite a far lievitare, anche se di poco, l’incasso complessivo sino a 32 milioni di dollari. A decretare però il successo del film di Scott furono le numerose proiezioni in manifestazioni in tutto il mondo, che contribuirono a rendere Blade Runner un cult.

Legato a questa debacle di Blade Runner ci sarebbe la leggenda metropolitana della sfortuna occorsa ai marchi citati nel film. Non serve nemmeno citare la devastante disavventura della Atari, ma andrebbero ricordati anche marchi meno noti in Italia, come il colosso dell’elettronica RCA, la Cuisinart, la Bell System o la Pan Am, celebri marchi che dopo la loro apparizione in Blade Runner finirono tutti per calare le serrande definitivamente.

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Eppure, il mito di Blade Runner, nonostante questo esordio tutt’altro che incoraggiante, è oggi uno dei punti saldi della cultura pop. Non solo per il cinema di genere, o per la fantascienza, ma per come ha saputo imporre una visione specifica del modo di raccontare su grande schermo temi di una certa rilevanza. 

Influenzato dalla visione cyberpunk, in primis per la sua connotazione urbana, il film di Scott ha costituito la base di un immaginario che negli anni seguenti si è sempre più sviluppato. Se da un lato va riconosciuto a Syd Meade di aver infuso una personalità inconfondibile a questo cult, dall’altro non si può concepire Blade Runner senza la colonna sonora di Vangelis. L’intensità della trama ha trovato nelle sonorità del compositore greco, con brani come Blade Runner Blues o il celebre Tears in Rain, sono diventati parte della storia del cinema, frutto di una felice sintesi di diverse sonorità sono divenute uno dei tratti essenziali della storia di Blade Runner

Tutte queste componenti sono state centrali, negli anni a venire, per dare vita all’aura di cult di Blade Runner, al punto da tenere vivo il mito di Deckard e dei Replicanti non limitandosi a declinarlo in altri media, dal fumetto al mondo virtuale dei videogiochi, ma anche riportando sul grande schermo la visione futura di Scott. Si sono dovuti attendere diversi decenni, ma con Blade Runner 2049, affidato a Denis Villeneuve, si è visto un raro caso di seguito in cui non si cerca di sfruttare un cult del passato in modo sterile, ma si mira a creare un ritorno all’interno di una saga svelandone l’evoluzione. 

 

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